Giulio Andreotti è stato l’uomo più potente, riverito e odiato d’Italia. Giulio Andreotti era l’uomo più semplice, schivo eppur disponibile tra i potenti, e non per brama di visibilità. Ne ha avuta sempre fin troppa. Credo che, in buona fede, considerasse il suo ruolo, i suoi tanti ruoli, sempre e comunque come servizio allo Stato, e qui non importa se svolto bene, così così o male. Ricordo due situazioni, piccole, trascurabilissime, ma significative.  Radio Proposta, emittente salesiana della diocesi di Torino, anni 80. Quattro ragazzi si alternavano tra “pizze” e neomixer per inventarsi una programmazione, con l’ambizione di fare informazione, a tutto tondo. Età media 20 anni. Ecco, Giulio Andreotti lo chiamavamo a casa, o tramite la deliziosa segretaria, e rispondeva sempre. Non importa che non fosse la Rai, o una testata giornalistica prestigiosa. Rispondeva sempre, o se impegnato richiamava, e si prestava alle domande più contorte e complicate che dei ragazzi si ingegnassero a confezionare, eccitati dall’avere a disposizione cotanto nome. Quando fu possibile, segnai il cellulare e lo feci squillare molte volte. Ugualmente non ha mai detto no a un’intervista, sulla carta, in tivù. E non si trattava di ribalte di primo piano, con affabilità, gentilezza e regalando sempre una delle sue celebri sferzate di ironia.



Roma, anni 90, piazza San Lorenzo in Lucina, il suo ufficio, il  Palazzo vero, da dove gestiva la città intera, non solo i suoi compiti, il suo prestigio. Sostavo spesso al sole con la carrozzina, la mia prima bimba neonata. C’erano i sampietrini, entrare nel bar davanti era complicato. Se n’era accorto, e prontamente fece cenno alla scorta di sollevare la carrozzina, per aiutarmi, presentandosi e chiedendo nome di mamma e bambina. Certo, è abilissima quest’arte di procurarsi il consenso. E’ intelligenza pura saper cogliere ogni occasione per strappare un grazie e un futuro sostegno possibile. Per questo c’era la fila, in quella piazza, fin dall’alba, per accedere alla sua segreteria, per consegnare una lettera, una foto. Gente comune, anzi no, gente semplice, povera. Non ho mai visto nessuno andar via senza essere ricevuto. Mai visto nessuno gridare,insultare o scuotere il capo sconfortato per un mancato ascolto. Certo, anche coi principi era così. Ci s’inchinava, aspettando uno sguardo, e quello sguardo significava tutto. Ma si trattava di un parlamentare della Repubblica, non di un imperatore, ancorché lo chiamassero Divo. Oso credere che Belzebù, il Grande Vecchio, l’Anima nera di tutta la storia italiana, com’è stato definito e dipinto, ricordasse bene da che storia proveniva, quale ideale avesse mosso i suoi primi passi, quali uomini gli fossero stati maestri.



Carrierismo, sete di potere? Può darsi. Ma ci siamo abituati a vederli seguire con lo sfarzo, la smaccata protervia, la ridondanza da tardo impero. Giulio Andreotti non ci guadagnava nulla a recarsi a Messa tutte le mattine alle 7 al Gesù. Da solo, o con la moglie, o con qualcuno della scorta, se gli andava. Non aveva bisogno di sbandierare il loden, per mostrare che significasse la sobrietà.

Leggi anche

SCUOLA/ "Ius scholae" e Galli della Loggia, a chi giova perdere tempo in falsi problemi?