Caro direttore,
sono una “cancer survivor”: una sopravvissuta del cancro che mi ha colpito quando avevo 48 anni. Sono madre di due figli e faccio la ricercatrice di storia medievale. Sto scrivendo queste righe con una mano attaccata alla flebo, nel reparto ospedaliero dove ogni mese mi infondono le immunoglobuline ancora necessarie dopo un triennio dall’ultima “battaglia”. Spesso devo prendere antibiotici e ho altri disagi, ma sono viva.
Per favore, ascolti la mia storia, anche solo per rispetto del dolore che ho attraversato per guarire. Ho deciso di scriverle dopo avel letto su ilsussidiario.net un articolo recente che ha suscitato in me molta amarezza, quello in cui si parla di Sara Fontana, mamma del piccolo Leonardo, e della sua disperata insistenza a sperimentare sul bimbo il “metodo Stamina”.
Perché ve la racconto? Perché voglio che in Italia persone come me (e soprattutto i bambini) possano vivere: non voglio vedere morire i malati per l’ irresponsabile negligenza di chi trasforma il dibattito scientifico sul cancro in un “talk show” che sfrutta le emozioni della gente, proprio come fanno i registi di Amici, di Uomini e donne e di simili spazzature televisive. La lotta contro il cancro è una cosa seria e costosa: è perciò un gravissimo danno far perdere tempo e soldi, sbagliando la valutazione delle cure veramente efficaci.
Nel 2007 mi hanno diagnosticato un linfoma N.H. e nel 2008 un sarcoma. Il primo è stato curato tramite alte dosi di chemioterapia e un autotrapianto di midollo osseo; il secondo con l’asportazione del sarcoma e la ricostruzione della gamba colpita attraverso un intervento che è durato 12 ore: era il novembre del 2010. I miei protocolli di cura erano tutti vagliati sulla base dei migliori risultati ottenuti dal mondo scientifico internazionale. Le mie cellule staminali sono state prelevate e inviate in uno dei centri italiani autorizzati a trattarle, con un permesso ottenuto dopo un rigoroso esame eseguito da una commissione nazionale.
Le chemioterapie e gli altri farmaci necessari alla mia guarigione sono costati almeno 200mila euro al sistema sanitario nazionale. Io non ho pagato un centesimo e il mio non è ovviamente un caso isolato. Se volete emozionarvi per la mia storia, vi allego le poesie che ho scritto nei mesi di degenza in isolamento, quando guardavo goccia dopo goccia la chemio che entrava nel mio corpo, roso dal cancro, mentre aspettavo di arrivare a metà giornata per poi pensare a come sarei arrivata a sera e per poi pensare a come avrei superato la notte. Non osavo guardarmi allo specchio…
Se volete emozionarvi, vi parlo di mio figlio Francesco che mi telefonava, dicendo che aveva visto il mio profilo in una nuvola e che le aveva inviato una Avemaria, chiedendomi poi: “Quando torni, mamma?”. Se volete ancora emozionarvi, vi dico che una volta sono entrata nella hall del reparto, in attesa di un ennesimo ricovero di quindici giorni, e la madre di un giovane appena morto, in attesa che la salma uscisse, mi ha detto con un amore indescrivibile: “signora, lei entri e continui a combattere; auguri!”
Io però non voglio fare appello alle emozioni ma all’uso della ragione, che di recente non gode di buona salute mentre il nemico continua a uccidere. Ecco perciò, in sintesi, quello che una sopravvissuta come me ha potuto sapere sul cosiddetto metodo “Stamina”, anche perché noi sopravvissuti ci informiamo seriamente su questi temi. La Stamina Foudation è una società fondata nel 2009 da Davide Vannoni, professore di psicologia all’università di Udine. Il progetto sulle cellule staminali mesenchimali è stato fatto in collaborazione con il dottor Andolina, già direttore del centro trapianti di Trieste. Ciò che si propone con il cosiddetto “metodo Stamina” è la cura di numerose patologie neurodegenerative attraverso la somministrazione sistemica e all’interno del midollo spinale di cellule mesenchimali prima trattate in laboratorio.
Primo punto da precisare: tecnicamente questa procedura non si può definire un trapianto di cellule, perché per essere definito tale le cellule dovrebbero essere inoculate nel luogo del tessuto che vanno a ricostituire, come avviene nei casi di midollo osseo dove le cellule infuse vanno a ripopolare il tessuto ematopoietico (che riproduce il sangue). In questo caso si deve parlare di “terapia cellulare”. Non si tratta di minuzie tecniche: la regolazione vigente è infatti molto differente se si tratta di terapie cellulari e questo perché poco ancora si conosce circa le capacità delle cellule infuse e perché la manipolazione delle stesse è un processo non scevro da rischi potenziali per il paziente. Altro punto su cui il “metodo Stamina” appare carente è l’assenza di un chiaro protocollo con il quale preparare il materiale da iniettare al paziente. In fatto di preparazione di un farmaco, perché di questo si tratta, non si può sostenere che l’esperienza dell’operatore sia fondante nella riuscita del prodotto; è come dire che se un ponte viene progettato dall’ingegnere “uno” regge, mentre quello fatto dall’ingegnere “due” crollerà. I ponti vengono progettati in modo che non crollino su se stessi indipendentemente dalla chi li abbia progettati. Per la terapia cellulare la situazione è analoga se non più rigida: non deve sussistere variabilità tra gli operatori.
Perché evitare di rendere nota al mondo scientifico una cura definita miracolosa? Perché non condividere le proprie scoperte, sperando magari di progredire con l’aiuto dei colleghi? Infine, le regole nel nostro paese e in Europa esistono per una ragione ed è quella di tutelare il cittadino, di proteggerlo dalle ingiustizie che più spesso colpiscono chi è debole e vulnerabile. Vulnerabile come un malato o un parente, molto spesso impossibilitati dal dolore a ragionare in modo pienamente lucido. È corretto dare speranza ed appoggio ai malati anche quando tutte le chanche terapeutiche sono fallite, ma non è corretto promettere qualcosa che non si conosce e non è corretto testare nuove vie terapeutiche senza prima aver affrontato il problema dal punto di vista dell’efficacia biologica, con studi pre-clinici, in vitro e nell’animale. Questo è quanto la scienza medica ha accertato. Questo è quanto dobbiamo fare per non creare illusioni false e per non recare danno ai malati.
Non voglio eludere un ultimo problema connesso a malattie così terribili. Lo faccio con pudore e rispetto verso chi non ha potuto trovare un conforto e un significato al suo dolore (non sopporto le consolazioni frettolose e superficiali, perché il dolore innocente rimane il mistero più atroce!). Ho vissuto l’esperienza della malattia con l’aiuto della fede. Non sono stata un’eroina e mi sono anche lamentata con Dio, come ha fatto Giobbe. Mentre ero malata, ho pregato tantissimo e il mio motto era: “fede e scienza per la guarigione”. Non ho preteso che i medici facessero un miracolo. L’ho chiesto a Dio, come una povera mendicante. Non ho neppure preteso che i medici si sostituissero a Dio: obbedivo alle loro indicazioni e mi fidavo con ragionevolezza. Questa collaborazione è stata utile. Nel mio caso è poi evidente che la Grazia è arrivata attraverso la scienza. A me è sembrata una cosa naturale come è armonico, seppure drammatico, il rapporto fra fede e ragione.
Queste cose, che ho imparato nella carne attraverso la sofferenza, non si possono dimenticare né tantomeno tacere. Ho scritto per amore: una come me, una “cancer survivor”, non può permettersi di perdere tempo.