Proprio nel momento in cui la crisi avanza e il lavoro scarseggia, vengono richiamati a lavorare donne e bambini: vale a dire, la manodopera a costo più basso costo, meno tutelata, più a rischio di sfruttamento. Accade a livello globale, nei paesi in via di sviluppo, non meno che in quelli avanzati, come l’Italia. Ma se per le lavoratrici italiane, come abbiamo già potuto leggere su queste pagine, il fenomeno si traduce in un aumento dell’occupazione “ufficiale”, o almeno in un passaggio dall’inattività (vale a dire lo scoraggiamento che si traduce in una totale uscita dal mercato del lavoro) alla disoccupazione (vale a dire una condizione di ricerca attiva di occupazione), per i minori questo non può che significare lavoro nero, clandestino, in conflitto sia con la più elementare esigenza di cura, affetto e gioco che con la necessità dell’istruzione.
I numeri dell’indagine sul lavoro minorile realizzata dall’Associazione Bruno Trentin e da Save The Children, presentata ieri a Roma, sono impressionanti: a lavorare sono in 260mila, il 5,2% dei bambini tra i 7 e i 15 anni, sia maschi che femmine (paradosso amaro, nell’epoca delle pari opportunità). Questa percentuale media significa che allo 0,3% dei piccoli lavoratori sotto gli 11 anni fa riscontro un 18,4% di quelli tra i 14 e i 15 anni: quasi 1 su 5. Un numero assai vicino a quello del tasso di abbandono scolastico italiano, pari al 18,2% (contro una media Ue del 15%).
Lavoro il più delle volte mal pagato, o affatto retribuito, pericoloso per la salute, la sicurezza o l’integrità fisica o morale dei bambini; soprattutto, lavoro invece della scuola, e senza potersi illudere, magari in nome dei bei tempi andati, che si tratti di un’esperienza formativa che non potrà che giovare al loro futuro.
Accanto alla dovizia di dati emergenti dalla ricerca quantitativa, sono disponibili anche le evidenze provenienti da un’indagine qualitativa, realizzata su 163 soggetti a Napoli e Palermo – due città del Meridione, dove si concentra il maggiore rischio di lavoro minorile. Dalle loro voci risulta lo scarso, se non nullo, valore formativo delle occupazioni che svolgono: che lungi dal rappresentare la conquista di una dignità, di una propria dimensione personale e sociale, costituiscono l’inseparabile complemento di problemi economici e familiari, che non di rado sfociano nel coinvolgimento criminale.
Cosa fare allora? Le richieste avanzate dai promotori della ricerca, prima tra tutte quella di un Piano nazionale sul lavoro minorile per monitorare e contrastare il fenomeno, sembrano quasi riecheggiare l’allarme lanciato lo scorso 10 giugno dal Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza nella sua relazione al Parlamento.
Il Garante ha stigmatizzato in particolare la scarsità di investimenti da parte dello Stato: un atto d’accusa al quale ci si può associare, se per investimenti si intendono azioni intese al sostegno complessivo delle famiglie, per intervenire sulle condizioni nelle quali il fenomeno matura e si diffonde.
Non soltanto, dunque, eventuali stanziamenti destinati alla creazione o all’incremento di servizi per gli utenti minori; ma anche, e soprattutto, misure a più ampio spettro pensate per le famiglie in difficoltà, dagli assegni a sostegno del reddito ai buoni scuola e sanità, fino alla definizione di una fiscalità più favorevole. Provvedimenti che consentano anzitutto a madri e padri di recuperare serenità, fiducia nel ruolo genitoriale, nella loro capacità di provvedere ai loro figli, di educarli e di sostentarli, e quindi di dedicare la dovuta attenzione alle loro reali esigenze.