L’emergenza carceri nel nostro Paese non è solo la presenza di oltre 65.000 detenuti in strutture previste per circa 46.000 (questo è sicuramente il dato più eclatante), ma anche il fatto che la pena che si sconta in carcere ha completamente perduto il fine previsto dalla Costituzione: ossia la rieducazione sociale del condannato. Ciò è dovuto a molteplici cause. Il sovraffollamento crea condizioni quotidiane di vita dei carcerati sotto la soglia minima della dignità umana e ciò non favorisce certo la loro risocializzazione. Il noto fenomeno per cui migliaia di detenuti vengono arrestati e rimessi in libertà dopo pochi giorni o settimane impedisce un percorso rieducativo degli stessi. Ma, soprattutto, la scarsissima possibilità di lavoro per i detenuti, la mancanza di investimenti per favorire le cooperative esterne che offrono lavoro all’interno del carcere e gli ostacoli burocratici di un’amministrazione penitenziaria poco attenta a questo aspetto fondamentale sia per la vita del detenuto all’interno dell’istituto penitenziario, sia per il suo futuro da uomo libero.
Sono questi i principali (non unici) fattori che fanno del carcere un parcheggio di persone che hanno sbagliato, sono state condannate, devono scontare la pena, ma buttano via il tempo (a volte lunghissimo) della detenzione e non hanno una reale speranza per il futuro quando usciranno: anzi, per la stragrande maggioranza, l’unica alternativa è tornare a delinquere (basta vedere l’alto tasso di recidiva dei nostri detenuti). Se questa è l’emergenza, è evidente che il sistema carceri necessita di una riforma strutturale che riequilibri i numeri della popolazione carceraria con i posti effettivamente disponibili: ma, al tempo stesso, è altrettanto necessaria una riforma culturale della pena, che recuperi concretamente lo scopo rieducativo della stessa. In tale senso è imprescindibile un investimento materiale e concettuale sul lavoro all’interno del carcere: se si interviene solo in termini di capienza e non sulla modalità di esecuzione della pena non si risolverà il drammatico problema dei detenuti.
Il c.d. decreto “tampone” presentato dal nuovo Ministro della Giustizia Cancellieri ha più di un merito: risponde all’urgenza di sfoltire (anche se in modo parziale e insufficiente) le carceri; introduce più ampi margini ai magistrati di sorveglianza per la concessione della liberazione anticipata e della detenzione domiciliare, ancorando le loro decisioni ai criteri di cui all’art. 133 del c.p. in modo che ciò non avvenga per detenuti ritenuti pericolosi e per reati gravi, salvaguardando così le ragioni dell’ordine pubblico; favorisce per talune categorie di detenuti (tra cui i tossicodipendenti) la sostituzione della detenzione con l’obbligo di svolgere lavori di pubblica utilità.
Il decreto apre così la strada alla discussione parlamentare, che dovrebbe iniziare il 24 giugno, sul disegno di legge messo a punto dal precedente ministro Paola Severino sulle misure alternative al carcere (quale ad esempio la detenzione domiciliare per i delitti puniti con pena massima non superiore ai sei anni) e la messa alla prova con percorsi di rieducazione – che sospende il processo – per i reati con pene inferiori ai quattro anni di reclusione.
Entrambi i provvedimenti muovono dal criterio, assolutamente condivisibile, per cui il carcere deve essere l’estrema ratio dell’intervento punitivo dello Stato, ossia deve avere come presupposto la commissione di gravi reati e la ritenuta effettiva pericolosità dell’autore degli stessi. Oggi non è sempre così: il carcere è utilizzato, in parte, come una “comoda” misura cui si ricorre, in fase cautelare quale strumento improprio di indagine, in fase esecutiva come fuga dalla responsabilità di concedere misure alternative. E, a proposito di responsabilità, se si dovesse affrontare organicamente la riforma delle carceri, non deve scandalizzare il ricorso ad un provvedimento di clemenza (sia esso amnistia o indulto). Uno Stato riformatore deve assumersi politicamente questa responsabilità: sia per il valore profondo di tali provvedimenti che affermano la non infallibilità del sistema giustizia, sia per permettere una concreta ripartenza del sistema rinnovato, in modo da poterne valutare, in tempi brevi, l’efficacia, onde apportarne, eventualmente, i necessari correttivi.