Giuliano Ibrahim Delnevo aveva vent’anni, era di Genova, si è convertito all’islam ed è morto tra le milizie degli integralisti islamici che si oppongono al regime in Siria. Marta ha diciannove anni, è di Genova, è cristiana – anche se lo ha un po’ dimenticato – e in questi giorni fa la maturità. Nessuno sa che cosa c’è nel cuore di Giuliano e nessuno sa che cosa c’è nel cuore di Marta. Ma entrambi hanno cercato, hanno lottato, hanno – consapevolmente o inconsapevolmente non so – desiderato essere di qualcuno. Lui lo ha fatto convertendosi al Dio Assoluto, al Dio unico che vuole essere Signore incondizionato della vita, non accettando il vuoto che il mondo occidentale gli ha proposto, aderendo – pare – al mondo mistico dei Sufi. Lei ha cambiato più volte ragazzo, è andata a tutte le feste della Genova bene e ha abbracciato il nulla che le è stato offerto proprio come le ha suggerito Nietzsche, tenendo il fiato e facendo finta di niente. 



Nessuno può giudicare Ibrahim e Marta. Forse sono stati nostri vicini di casa, forse hanno studiato con i nostri figli e forse, avendo entrambi una pagina facebook, sono stati piccoli campioni di Candy Crush o di Farmville. Ma il punto non è questo. Il punto è che oggi i nostri ragazzi possono vivere o morire, possono andare a Macerata o in Siria, possono essere atei o integralisti ma a noi frega poco o niente. Noi dobbiamo votare la scomunica dei dissidenti grillini in rete, dobbiamo leggere le ultime news politiche o spirituali della nostra tribù, dobbiamo programmare le vacanze o organizzare il nostro tempo, ma non ci interessa del cuore di chi abita vicino a noi. Quello è affare loro. Ognuno ha la propria storia. Ognuno deve vivere la sua vita. 



Così, storpiando il senso delle parole cristiane del nostro popolo, costruiamo nelle nostre città nuovi fortini intellettuali, nuovi clericalismi, nuovi centri di potere a cui interessa solo che niente sfugga, che tutto sia in regola e che ogni parola sia al posto giusto. E non ci accorgiamo di chi piange e di chi ride, di chi cerca e di chi domanda, di chi – spinto dal vuoto della nostra testimonianza – decide che sia meglio morire per Allah o per se stessi che vivere per Cristo. Per questo ci stupiamo quando ascoltiamo la storia di Marco Gallo che, morto prematuramente a diciassette anni, ci dice che “lo scopo del popolo Cristiano non è quello di assimilarsi a tutto il resto, di farsi trascinare nel baratro del vuoto, per vivere come amebe, ma di dare un’evidente testimonianza della presenza che abbiamo incontrato”. Per questo ci lascia allibiti papa Francesco quando ci invita a non pettinare la pecora che abbiamo trovato, ma ad uscire ad andare in cerca delle novantanove che si sono smarrite. 



Ci stupisce che qualcuno si interessi del cuore degli altri. Ci stupisce e ci innervosisce. Perché i cristiani possono fare quello che vogliono ma non possono essere popolo. Nessuno ha paura dei nostri crocifissi nelle scuole. Si lagnano un po’, ma tra poco − quando non ci saremo più − li toglieranno. E cosi toglieranno la differenza tra uomo e donna, tra bene e male, tra blu e rosso. E nessuno potrà parlare. Perché nessuno sarà più abituato a sentire la nostra voce. 

Ibrahim è morto per un ideale che noi non abbiamo saputo dargli. Eppure ha sentito − eccome − le nostre proteste sui valori non negoziabili, sulla povertà, sull’ambiente. Ma niente di tutto questo gli è bastato. E non è bastato neppure a Marta. Solo che lei non è partita, è rimasta a casa da mamma e papà, ha goduto della loro paghetta, ha invitato il suo fidanzato a cena dai suoi, è andata a qualche concerto di solidarietà. E solo per questo ci è sembrato di non averla persa. Ma non è così. Perché il suo cuore urla e nessuno può fermarlo. E il fascino del nulla, dell’anestetico del denaro o del piacere è forte. E fa comodo non sentirlo più quel cuore. Ibrahim è morto. E forse non ci interessa. Ma il dramma è che anche Marta sta morendo. E noi non ce ne accorgiamo. Chiusi su noi stessi, protetti dalle nostre giustificazioni, crediamo di essere padri e madri solo perché abbiamo dei figli. Ma stiamo loro negando quello che cercano, un senso per vivere tutto, per vivere davvero. E prima o poi troveranno un buon affare sulla piazza. 

E allora sarà troppo tardi. Avranno anche preso cento alla maturità, ma non avranno incontrato l’amore di Dio. E per vivere non serve il cento, serve un padre. In questi giorni ho fatto filosofia con un centinaio di maturandi. L’ho fatta. Ma di loro potrebbe non fregarmene niente. Perché ciò di cui hanno bisogno non è uno che faccia delle cose per loro, ma uno che li guardi, uno che sia adulto di fronte a loro. Ibrahim voleva solo questo. Anche Marta lo vuole. Forse dobbiamo smetterla di organizzare summit e di fare delle analisi psico-sociali. Forse è meglio che stiamo zitti e che, semplicemente e con un preghiera nel cuore, cominciamo a guardarli in faccia. Ibrahim voleva solo questo.