Sono passati 60 anni da quando, il 9 aprile del 1953, il cadavere della 21enne Wilma Montesi fu rigettato dal mare sulla spiaggia di Torvaianica. Inizialmente etichettata come suicidio, la morte di questa giovane romana, all’apparenza tutta “casa e chiesa”, era però destinata a diventare uno dei misteri più cupi della storia della nostra Repubblica e a travolgere senza esclusione di colpi parte della classe dirigente di allora. Scartata la tesi del suicidio, si pensò alla morte accidentale, sopraggiunta a causa di un malore che avrebbe colto la Montesi mentre faceva dei pediluvi di acqua marina, nella quale sarebbe poi affogata. Ma dopo alcune testimonianze e insinuazioni che rimbalzarono su tutti i quotidiani, si fece largo un’altra versione dei fatti: la ragazza sarebbe rimasta uccisa durante un festino a base di sesso e droghe, in cui sarebbe stato coinvolto anche il figlio di un personaggio di spicco della Democrazia cristiana, nonché vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri, Attilio Piccioni, che fu costretto a dimettersi.
Il caso della morte di Wilma Montesi è tutt’ora irrisolto ma difficile è dimenticare la tempesta mediatica e politica che investì l’Italia in quei mesi, formando il binomio politica-sesso fino ad allora inedito, per poi farlo ricadere nel silenzio dal quale proveniva. Quel caso è stato rievocato dagli scandali hard che hanno investito la figura di Silvio Berlusconi, culminando nell’arcinoto “caso Ruby”, nell’ambito del quale l’ex premier è attualmente indagato. Che analogie corrono tra lo scandalo Montesi e il “caso Ruby” che, pur non avendo in sé solo il versante “a luci rosse”, senza quello “nero” dell’omicidio o presunto tale, ha scosso l’opinione di un pubblico certamente meno “all’antica” di quello degli anni 50? Francesco Grignetti, giornalista de La Stampa e autore del libro “Il caso Montesi”, uscito nel 2006, prova a rispondere a questa domanda.
La morte di Wilma Montesi è uno dei primi scandali a sfondo sessuale della nostra Repubblica.
Il caso Montesi per la prima volta innescò, all’interno della prima Repubblica, uno scandalo mediatico-giudiziario che si formò per l’intreccio di tre elementi chiave: il sesso, la politica e la giustizia.
Un “trinomio” in comune con lo scandalo che ha interessato Berlusconi, con la vicenda di Ruby Rubacuori.
Esattamente, da questo punto di vista vedo un’analogia forte tra il caso Montesi e quello Ruby. 60 anni dopo la morte di Wilma Montesi, per le conseguenze di un altro caso politico-mediatico-giudiziario nel quale il condimento di base è il sesso, l’Italia assiste a un passaggio epocale: la fine del governo Berlusconi e l’avvento di un governo di tecnici.
Perché l’Italia ha potuto vivere sessant’anni di “silenzio scandalistico”, mentre negli altri Stati europei e in America i “sex gate” erano quasi all’ordine del giorno?
I Paesi di cultura e religione puritana, soprattutto anglosassone, nord-europei e americani, hanno spesso trattato l’argomento “sesso” in una maniera più diretta, immediata e quindi più “maneggiata” all’interno della politica, rispetto all’Italia dove, forse a causa della nostra cultura cattolica, siamo stati per tantissimi anni soggetti a una cultura dell’omissione del pruriginoso, dove al massimo si tollerava l’ammiccamento e mai un argomento del genere era stato gettato in pasto al dibattito politico.
Quindi il caso Montesi fu una clamorosa eccezione?
Sì, ma non solo: fu l’architrave di una convenzione politica e culturale italiana che ha retto per cinquant’anni, fino a Berlusconi. Questa convenzione, dopo il caso Montesi, fu il rispetto della privacy dei politici. Per 50 anni gli scandali sessuali del potere in Italia sono stati quasi sempre soffocati sul nascere e nascosti.
Perché si stipulò questa sorta di “convezione”, come la chiama lei?
Perché lo scandalo Montesi fu selvaggio e la lotta politica che si alimentò attraverso le soffiate sui giornali non risparmiò nessuno, né la Dc – in particolare toccando il figlio dell’allora potentissimo ministro Piccioni – né il Pci.
Come avvenne a proposito di quest’ultimo?
Il caso Montesi innescò una pericolosa catena di “sottoscandali”. Uno di questi travolse il principe del Foro Giuseppe Sotgiu del Partito comunista, che cercava di conquistare il Campidoglio, ma che fu fotografato – da paparazzi ante litteram – mentre entrava e usciva con la moglie da una casa di appuntamenti di cui erano assidui frequentatori.
E la caduta di Sotgiu fu la goccia che fece traboccare il vaso e diede il via all’“armistizio”?
Sì, dopo la pubblicazione delle foto che lo fecero inabissare, comparve su L’Osservatore Romano un editoriale che in latino recitava più o meno “Oggi a te, domani a me”. Il messaggio fu capito da tutti: l’argomento “sesso” non andava usato in campagne politiche. Su questa convenzione la politica italiana è andata avanti per decenni, fino a Berlusconi, che ha rispolverato un’arma letale rimasta sepolta per mezzo secolo.
Berlusconi, da un certo punto di vista, era ben conscio di “rispolverare” un’arma pericolosa…
Certo, lui è il primo che ha “gigioneggiato” con le sue battute sulle donne e sul sesso, che è sempre stato una chiave della sua comunicazione politica. E quindi ha gettato, molto all’americana, il proprio privato nella mischia della politica, innovando moltissimo il costume politico italiano. E una volta che si è aperto il vaso di Pandora è successo di tutto: è venuto fuori il caso Noemi, il caso Patrizia D’Addario, le escort, la villa in Sardegna fino a Ruby che di questa parabola non è che l’atto finale.
In ogni caso, bisogna tener conto che nel ’53 c’era di mezzo anche un omicidio.
Il caso Montesi ha in realtà una sua fisionomia: tutto ha inizio con la scoperta del cadavere di Wilma sulla spiaggia, ma dopo poco la vittima e la sua morte passano in secondo piano e tutto il dibattito è trasposto sul versante politico dopo una serie di rivelazioni – vere e false, ma verosimili – sui costumi “libertini”, come venivano definiti all’epoca, della classe dirigente e dei figli dei politici.
Cosa voleva dire per l’epoca?
Nell’Italia degli anni 50, povera, nella quale avere l’automobile era considerato un lusso, il “figli di” era visto con particolare avversione. Scoprire – da parte di una popolazione allora ancora molto cattolica – che i figli di una classe dirigente che si professava credente conducevano in realtà una vita dissoluta, fu il cuore dello scandalo.
Dopo il ’68, in un’Italia decisamente meno cattolica rispetto al ’53, fa ancora scandalo un “caso Ruby” o a molti un fare come quello di Berlusconi in realtà piace?
A giudicare dai voti che ha incassato ancora alle ultime elezioni, c’è sicuramente una parte d’Italia che non si scandalizza o che oscilla tra il considerare il suo un peccato veniale e il solidarizzare con lui, l’uomo ricco a cui nessuna dice di no.
Un bel cambio di rotta negli italiani rispetto al punto di vista di 60 anni fa.
Lo scandalo, allo scoppio del caso Ruby, in effetti ebbe più ripercussioni all’estero: c’è da immaginarsi cosa possano aver detto in merito al “Bunga-Bunga” nelle cancellerie straniere, dove c’è stato un vero e proprio terremoto, che spiega molto di determinate scelte politiche da parte dei Paesi stranieri e delle loro prese di posizione al limite dell’ingerenza.
(Maddalena Boschetto)