Caro direttore, dispiace che una cosa bella come l’alpinismo buchi l’attenzione dei media solo perché qualcuno se n’è andato. Quando ho saputo dell’incidente, non so perché, ho subito cercato di avere più informazioni possibili, come per allontanare il dubbio che sul Gran Zebrù, questa volta, fosse toccato a qualcuno che conosco. Non è stato così; non conoscevo le vittime, posso però dire qualcosa della passione che li ha condotti fin lassù, avendo io stesso salito il Gran Zebrù in più di una occasione.



L’ultima volta è stato solo pochi anni fa, in compagnia di amici molto, molto più giovani di me. Vede, quando andiamo in montagna, sembra sempre che l’incidente possa capitare solo agli altri. Adottiamo tutte le regole della prudenza, tutto il bagaglio tecnico che abbiamo messo da parte, ma la montagna ha sempre l’ultima parola. Anche quando, incolumi, torniamo alla macchina. Il Gran Zebrù, come del resto ogni altra montagna, non è cattivo, né “assassino”, né, come spesso si legge, chiede alcun “tributo”. La montagna se ne sta lì e basta. Il vero tributo lo paghiamo a noi stessi: al nostro desiderio di sperimentare, scoprire, realizzare, vedere l’immensità della natura in cui siamo immersi e viviamo. Il lato sportivo può nascondere a noi stessi questa aspirazione, che non può però sparire del tutto. A volte il suo prezzo può essere la vita. Chi va in montagna lo sa. Lo sapevano senz’altro anche gli alpinisti di Parma e di Novara (Daniele Andorno, 45 anni, Michele Calestrani, 43 anni, Matteo Miari, 22, ndr) precipitati al mattino; come dovevano saperlo anche i tre altoatesini (Matthias e Jan Holzmann, 26 e 30 anni, e Wolfgang Genta, 32 anni, ndr) caduti per una identica, tragica fatalità dopo avere fatto la parete nord. Ma allora, perché?



Leggeremo, sui giornali di stamane, le ricostruzioni dell’incidente. La mia impressione, da quel che si sa oggi (ieri, ndr) è che possano essere precipitati in quel temibile, ripido canalino che costituisce un passaggio obbligato per chi proviene dal Rifugio Pizzini e che mette in ansia chi sale e sopratutto chi scende da quella montagna. Un tratto ripido, dove è difficile proteggersi, e dove, se la neve non è coesa con il ghiaccio sottostante, può venire via facilmente, tradire chi la calpesta, trascinandolo a valle. Mentre per gli altoatesini precipitati dalla nord potrebbe aver ceduto un tratto di quella cresta ripida sottile che separa la parete nord dalla parete est.



Mi ricordo che anch’io ho avuto paura in quel punto, e facemmo una buona sicurezza per permettere alla cordata di abbassarsi con il minor rischio possibile.

Dettagli poco importanti, si dirà, ma non è così. In un’annata come questa di mancata primavera e abbondante innevamento, quando la temperatura si innalza in modo così repentino lo strato nevoso superficiale è enormemente pericoloso, a rischio di cedimento sotto il peso di chi sale. Non si deve parlare di cedimento del ghiaccio, ma dello strato nevoso allentato dall’improvviso caldo estivo.

So bene che questo non rimuove le domande che tutti ci poniamo – non solo chi sta a casa, coloro ai quali della montagna non importa nulla, ma anche mogli, padri e madri, figli, che attendono chi è partito, confidando che ritorni la sera, come è accaduto mille volte (perché infatti non dovrebbe essere così un’altra volta ancora?). E soprattutto, non rimuove le domande di tutti quelli che continuano, le montagne, a sognarle e a salirle.

Perché dunque rischiare la vita per salire sulle cime? Quante volte ci siamo posti questa domanda, forse tante d’averne perso il conto. La montagna seduce e attrae, ma nulla essa potrebbe se non ci fosse in noi una eco della sua bellezza.

Dopo una vita di alpinismo in cui ho visto tante tragedie, so purtroppo che la passione acceca la ragione, la riflessione, la prudenza sugli eventuali rischi e pericoli insiti nella nostra azione. Questo accadeva in passato e accade adesso. Non so se una volta fossimo più bravi o più fortunati. Oggi nelle scuole di alpinismo si punta molto sulla preparazione tecnica, una volta c’era molta più improvvisazione. I materiali si sono evoluti enormemente, c’è un abisso rispetto a trent’anni fa e questo potrebbe insinuare in noi un pericoloso tarlo, l’idea che con i bollettini e la tecnica riusciamo a neutralizzare l’imprevedibile. Non è così, purtroppo. In certi casi la rinuncia è ancora una virtù.