L’amianto ha ucciso, in Italia, migliaia di persone, stravolgendo le esistenze dei loro familiari e straziando quelle di chi, attualmente, è affetto da mesotelioma pleurico o altre malattia connesse all’aver respirato fibre del materiale, come l’asbestosi. Ieri, per la seconda volta è stata fatta giustizia. In appello, Stephan Schmidheiny, unico imputato rimasto in vita per la strage dell’amianto (il barone belga Louis De Cartier De Marchenne è morto due settimane fa, a 92 anni) è stato condannato a 18 anni di carcere per disastro doloso e omissione di cautele antinfortunistiche. In primo appello, gli erano stati dati 16 anni. Si era ritenuto che per le vittime di Bagnoli e Rubiera fosse intervenuta la prescrizione. Il commento di Antonio Boccuzzi, deputato del Pd, unico degli operai coinvolti nell’incidente della Thyssenkrupp sopravissuto alle fiamme.
Cosa rappresenta questa sentenza per i familiari delle vittime?
Affermare che chi ha perso uno o più parenti per una malattia derivante dall’amianto possa vivere questa sentenza come un successo sarebbe scorretto. Indubbiamente, tuttavia, possiamo dire che i familiari delle vittime abbiano ottenuto giustizia – sempre, ovviamente, che la sentenza sia confermata in ultimo grado.
Crede che sarà confermata?
Mi pare che ci siano tutti i presupposti. In particolare, ho modo di crederlo perché la sentenza di primo grado è stata rafforzata.
Che significato assume, invece, per il Paese?
Il pronunciamento del tribunale è un risultato importantissimo per far capire come, in Italia, non sia tutto in vendita, compreso il diritto alla salute.
Concretamente, che ripercussioni si determineranno per le aziende e per i processi in cui si possono individuare episodi analoghi?
Negli ultimi tempi è balzata alle cronache la vicenda dell’Ilva di Taranto, un caso clamoroso di incapacità di gestire contemporaneamente il diritto alla salute e quello al lavoro. Ebbene, c’è da sperare che la sentenza – così come quella della Thyssenkrupp – contribuisca a far sì che, in Italia, si inizi a coniugare entrambe le esigenze. In caso contrario, difficilmente potremmo mai dirci un Paese realmente civile. Ovviamente, posto che un percorso virtuoso abbia avuto inizio, questioni di questo tipo non si risolvono di certo esclusivamente con le sentenze. Sarà fondamentale mettere in campo tutte quelle iniziative concrete che attuino la nostra normativa sulla prevenzione; ed effettuare piani di bonifica sistematici in tutti i siti inquinati.
Qualcuno teme che questa sentenza possa dissuadere gli investitori stranieri dall’approdare in Italia.
E’ quanto sostengono anche i difensori dell’imputato. A dire il vero, il problema non si pone. Non ci sono ragioni perché questa sentenza debba frenare gli investimenti. Anche perché riguarda chi si è disinteressato completamente della salute dei propri dipendenti. Chi agisce così non fa investimenti, ma mere speculazioni per fare esclusivamente i propri interessi, e non quelli della comunità in cui l’azienda opera. Inoltre, gli imprenditori stranieri preferiscono indubbiamente investire in un Paese in cui venga rispettato lo Stato di diritto.
In ogni caso, non crede che anche laddove fosse condannato in ultimo grado, l’imputato non si farà mai un sol giorno di carcere?
Non è detto. La condanna è talmente grave che non escludo che, benché risieda in Svizzera, si trovi il modo per fargli scontare la pena. Resta il fatto che sarebbe necessario che il nostro Stato si facesse finalmente carico di affrontare la questione nelle sedi opportune, occupandosene sul fronte dei rapporti internazionali e delle pressioni diplomatiche con la Svizzera.
(Paolo Nessi)