Oggi c’è il sole, dopo tanta pioggia; sembrano cent’anni che piove, l’erba del giardino è una foresta, il lago si è infiltrato nella bassa, le ciliegie cadono verdi.
Oggi tornano le voci dei bambini nei cortili, spalanco le finestre, stendo: l’odore della biancheria pulita mi conforta, la luce è tanto bella che stiro volentieri. Sono una madre.
Ho seguito con il cuore aperto la storia di Luca, il bambino dimenticato in auto, che forse se avesse piovuto, lì, a Piacenza, come qui…
Se ascolto la radio mi viene da piangere: basta, smettete di uccidere i morti, ha implorato Ungaretti. Tacete. Lasciateli in ospedale, sedati, quei genitori, tirate un paravento e andatevene, usate il silenzio come un laudano.
È che in ospedale io ci ho lavorato, molti anni, come ostetrica; e conosco il brusio delle corsie, come bene conosco lo schianto quando oltrepasso il paravento. Cosa volete sapere? In cosa posso esservi utile? Potrei fare altro per voi? Chiedo ai parenti e mi siedo sul bordo del letto.
Ora, voi siete i miei parenti: cosa potrei dirvi di più?
Non posso ridarvi vostro figlio. Il battito è perso, il liquido amniotico è muto.
Il bimbo è prematuro, nascerà per non vivere. Il bimbo è malformato, senza reni, polmoni, il cuore non reggerà il giro del sangue e dell’aria.
La mamma vuole gridare: se fossi venuta qui prima… il padre: se avessimo fatto altri esami…
Si potrebbe annegare nei se.
Ma è successo. Ora è morto, lo avete tra le braccia.
Anche quella mamma di Piacenza urla: come hai potuto?
Mi immagino Maria, che guarda Giuda (si dice che lui sia andato da lei prima di impiccarsi); glielo avrà chiesto? Oppure guarda Pietro, il traditore, perché non sei stato con Lui? Eppure lo amavi.
Ascolta, ho detto alle mamme, la vita è un dono, non dipende da te.
È vero, noi ora possiamo manipolarla, abortirla. Esiste la fecondazione artificiale. Ma lo sappiamo che non va tutto secondo le nostre manovre; non tutti gli embrioni attecchiscono, anzi, la percentuale è scarsa, a fare le statistiche.
Questo volere esserne padroni assoluti lo hanno chiamato “delirio di onnipotenza”.
La vita non dipende da te. C’è. Resiste quando meno te lo aspetti, muore allo stesso modo.
Non c’è rassegnazione in queste parole; sì, si potrebbe intendere così, ma non è questo il significato com/prensibile, da prendere dentro di sé.
C’è una soglia di mistero. Davanti alla quale fermarsi. Non si può proseguire.
C’è chi crede che questa soglia sia un baratro. E giustamente è disperato.
Cè chi invece sta sospeso, spera. Che non sia finito tutto lì, veramente.
C’è chi sente una promessa che si avvera, ma in modo così doloroso… “mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato”…
Ora, la mamma di Luca è davanti al baratro.
E noi siamo così interessati a quello che farà, che dirà, perchè lo sappiamo che prima o poi, in modo diverso, certo, ma arriverà anche per noi il baratro.
Sediamoci accanto a lei, sul bordo del letto, in silenzio. Sul bordo del nostro cuore. In silenzio.
La vita è un dono.
Qualcuno me lo dà. Qualcuno che pensa a me.
Qualcuno che, non è che me l’ha presa, no; ma Gli è ritornata. È compiuta, in qualche modo che non so, è compiuta. Non è una questione di colpa.
Non è una questione di colpa.
Ma di merito e di grazia. Di ognuno.
E di misericordia. Non è perduta. Non sono perduto.
Niente e nessuno è perduto: in quel buio intuisco un abbraccio.