Una tv olandese, la sera del 25 giugno, ha trasmesso un documentario destinato a far discutere. E far pensare. Forse persino a fare piangere. Rimanere insensibili davanti alla storia di Priscilla Brouwer è impossibile: i 55 minuti di Nachtvlinder raccontano infatti la terribile malattia ereditaria che l’ha colpita a 16 anni e che l’avrebbe presto portata alla tomba, come già fece con sua madre. Ma non è stata la patologia debilitante dalla quale era affetta ad ucciderla, qualche settimana fa, ma la sua scelta di smettere di soffrire, concedendosi, come regalo per il suo 26esimo compleanno, una magnifica festa nella movida di Amsterdam e poi la “dolce morte” in una clinica, epilogo di una vita serena compromessa dal male. Una decisione approvata e sostenuta dalla famiglia e dagli amici della ragazza, le cui ultime ore sono state filmate dalle telecamere per realizzare un docu-film che la protagonista non avrebbe mai visto. Ma che, ieri sera, sulla rete NCRV sono in molti ad aver seguito con attenzione e che, a dire dei sostenitori olandesi dell’eutanasia, potrebbe far prendere coscienza ai giovani della possibilità di scegliere per la fine delle proprie sofferenze in caso di malattie terminali, in una società – quella occidentale – nella quale morte e dolore sono considerati argomenti di grande appeal mediatico ma, direbbero gli americani, “not in my back yard”. Il perché di questo amore-odio nei confronti di quella che non è più “sorella Morte”, ma una “sorellastra” – che la gente è spinta a rimirare in continuazione, ma solo da lontano – ce lo spiega Francesco D’Agostino, filosofo del diritto.
La pagina Facebook di Priscilla, dopo la messa in onda del documentario sui suoi giorni, è stata invasa da commenti di chi ritiene la sua scelta coraggiosa e degna di rispetto. Cosa ne pensa?
Credo che, al di là delle motivazioni che spingono una persona a compiere un simile atto e delle ragioni che possono o meno giustificarlo, casi del genere dovrebbero essere eccezionali e come tali dovrebbero essere considerati. Ma oggi assistiamo a una dinamica nella quale il suicido – normato da leggi e standardizzato – da eccezione si tramuta in regola. Basta attuare alcune procedure burocratiche e diventa anche qualcosa di mediaticamente accattivante.
Perché un docu-film sull’eutanasia ha attirato l’attenzione della gente?
Il tema del suicidio, di per sé, e la stessa scelta intenzionale di anticipare o accelerare la propria morte, non è solo un segno di disperazione, ma più che altro di “necrofilia”, che testimonia il fascino che la Morte ha da sempre sulla psiche umana. E mai come in questo periodo l’arcinoto tema del legame tra “amore e morte” con i moderni mezzi d’informazione ha avuto la possibilità di essere amplificato e spettacolarizzato, venendo però al contempo banalizzato.
Quella di Priscilla non è quindi solo la storia di una ragazza che sceglie di prevenire una dolorosa agonia.
Esatto: è l’esplicitarsi della situazione paradossale del mondo odierno che, da una parte, pretende di essere ipergarantito per quanto riguarda la fisicità e la salute – ci sono assicurazioni per qualsiasi cosa –, e poi si fonda su dinamiche opposte nelle quali la vita viene svuotata di valore e diviene oggetto di spettacolarizzazione. Ecco il paradosso: la vita ipertutelata e sicura è diventata noiosa.
E da cosa è causato tutto questo?
Dietro a tutto questo potrebbe esserci una sorta di carenza di meditazione etica e morale sulla vita: è sempre più difficile, per l’uomo di oggi, interrogarsi sul senso della vita e della morte. Nella storia della pittura occidentale si usava dipingere i santi con un teschio tra le mani: un aiuto alla meditazione sulla fragilità della vita e delle imprevedibilità della morte. Adesso quello stesso simbolo, che vediamo riprodotto praticamente ovunque, ha completamente perso di significato.
In che senso?
Non solo non si è più in grado di riflettere né sulla vita né sulla morte, ma si gestisce a piacere la vita e la morte, dando per scontato la prima e spettacolarizzando la seconda, senza dare a nessuna delle due il giusto rilievo. E un sistema che burocratizza la morte, come quello dei Paesi in cui eutanasia e suicidio assistito sono permessi, ha immensa responsabilità sociale, perché contribuisce ampiamente alla banalizzazione di cui ho parlato.
In che modo si è arrivati a questo impasse?
Quanto più l’Occidente si è premunito contro qualsiasi tipo di sventura e imprevisto – come guerre, carestie, epidemie – tanto più sono aumentate le pulsioni “necrofile”, mentre è stato notato che nei luoghi in cui la vita umana è più disprezzata, come successe nei campi di sterminio e nei lager, l’attaccamento della gente alla vita è altissimo e quindi il suicidio è assai ridotto: tutti pensano a sopravvivere.
Si troverà il modo di ridare gusto alla vita?
Fare previsioni è difficile: le cose potrebbero rimanere come sono. Oppure c’è forse da sperare che qualcosa di imprevisto, come una crisi economica o naturale o persino una rivoluzione, possa far risorgere un attaccamento forte alla vita che renda le leggi sull’eutanasia anticaglie o rottami di epoche definitivamente passate.
(Maddalena Boschetto)