Ma quant’è fico il fico. È un albero bellissimo e anche un poco misterioso se penso che la gelata di due inverni fa ha seccato la pianta che si ergeva dritta al centro del mio giardino. Però, quasi d’improvviso, a primavera è spuntata un’altra pianta, proprio da quel soffio di vita che ancora c’era nella sua radice. E oggi è un alberello, che promette frutti per l’anno che verrà. Sembra una parabola della vita, che racconta la speranza contro ogni speranza.
All’ombra del fico ho passato le mie estati da bambino, ed era un fico con la chioma ampia che dava frutti verdi. Il fico di mia nonna, invece, aveva rami altissimi e i suoi frutti erano rossi (e dolcissimi). E se i primi fichi, quelli verdi con pelle spessa, sono gli unici che troviamo sul mercato, si sappia che non è per un giudizio di valore, ma solo per problemi di commercializzazione, giacché i fichi mori della nonna Angiolina che hanno pelle molto fine non si conservano per lunghi viaggi. E questo è il fico del chilometro zero per antonomasia, il vero frutto che si abbinerebbe al salame crudo, mentre quello verde mal si adatta.
Nei giorni scorsi sono stato a Marostica, dove invece si celebrava la gloriosa ciliegia che ha ottenuto l’Igp (indicazione geografica protetta). E mentre assaggiavo la turgida varietà “Ferrovia”, rossa, succulenta, prendevo atto che sotto il nome di ciliegia di Marostica esistono oltre 20 varietà di ciliegia coltivate in loco. Ma anche qui: non tutte sono adatte alla commercializzazione e fra le più delicate c’è una varietà che porta il nome di Marosticana. Avrei voluto assaggiarla, ma gli indigeni mi han detto che sono ormai rare le piante di quella varietà. Il motivo? La pelle fine, che non favorisce la commercializzazione. E lì ho capito almeno una cosa: in nome del commercio, nel campo della frutta ma anche degli ortaggi, stiamo disperdendo un patrimonio di gusti.
Eppure queste varietà, nate dall’empirismo di chi ci ha proceduto, avevano un perché e, sicuramente, lo avevano nel gusto. Eppure in nome della commercializzazione ci siamo fatti infinocchiare con le fragole tutto l’anno e persino coi meloni che non sono più i Cantalupo che mio suocero coltivava alla Certosa di Garegnano a Milano. Mi fa tenerezza quando dal portafoglio trae una foto in bianco e nero, vecchia di almeno 50 anni, che immortala quei meloni tondi, ben diversi da quelli che solitamente ci vengono serviti col prosciutto crudo al bar. Non sono questi i problemi, potrebbe ribattere qualcuno… e non avrebbe torto. Ma la verità è che si tratta solo di rispetto: il rispetto di accogliere ciò che i padri ci hanno consegnato, come certi mobili di fine Novecento, che qualche idiota cominciò a usare come legna da ardere, perché la tendenza erano i tavoli di formìca.
Le varietà di fichi, di ciliegie e di meloni, ma anche di mele, pere e quant’altro, fanno parte della stessa storia: uccise sotto la legge della commercializzazione. Ecco perché i Comuni, che sono le sentinelle del nostro territorio, devono sentire il dovere di censire i prodotti identitari che gli sono stati consegnati. Si chiamano, forse impropriamente (ma la sostanza è quella), denominazioni comunali. E se la fine ciliegia marosticana non va bene per il viaggi nei mercati, che la si tenga per la festa del paese, per sublimarle con la grappa o in qualche dolce. Si chiama marketing territoriale. Ed è anche questa una questione di gusto.