Nell’intenzione del legislatore l’affido familiare è uno strumento di aiuto per un bambino che non può crescere nella sua famiglia: un aiuto alla sua crescita, garantendogli un accogliente contesto familiare, senza staccarlo del tutto dai suoi poco adeguati genitori. Il primitivo testo della legge 184 del 1983 poneva a carico dell’affidatario anche un dovere di favorire i rapporti tra il ragazzo affidato e la sua famiglia di origine; è peraltro concordemente condivisa l’affermazione che il rientro nella famiglia di origine sia la “fisiologica” conclusione dell’affido.



Questo postula, all’evidenza, un percorso di aiuto e di sostegno non solo degli affidatari, ma anche dei genitori e in generale della famiglia di origine, il cui effettivo coinvolgimento può da una parte aiutare il recupero delle problematiche che hanno reso necessaria l’allontanamento del minore, e dall’altra, comunque, dà al bambino la possibilità di vivere senza troppe lacerazioni la sua “doppia appartenenza”. La necessità di un “lavoro” sulla famiglia di origine è affermata come ineludibile nelle dichiarazioni di principio degli esperti e degli addetti ai lavori più illuminati – le recenti “linee guida” in materia di affido, gli operatori che parlano ai convegni, le associazioni di famiglie affidatarie… Si afferma cioè un rapporto per così dire di sussidiarietà, quasi di complementarietà tra le due famiglie in una esperienza di solidarietà sociale.



Si osserva tuttavia che sempre più di frequente, l’affidamento familiare viene invece utilizzato come un intervento sostitutivo della famiglia di origine, per dare ai minori una famiglia “più idonea”, in sostanza staccandoli dalla loro. Si parla di affidi “sine dia”, fondati su una “prognosi” di “irrecuperabilità della capacità genitoriale”; i rapporti con i genitori sono impediti dall’istituzione o ridotti ai centellinati incontri in “spazio neutro” (strutture ad hoc, in cui i genitori vedono i figli, a orari prefissati, in presenza di educatori). E’ una tendenza che presenta più di un elemento di preoccupazione per l’ampia discrezionalità con cui, di fatto (e senza le garanzie del procedimento adottivo) dei figli vengono tolti ai loro genitori.  



Una vicenda come quella della madre di Carbonia fa pensare che sia mancato un effettivo sostegno alla famiglia di origine, e che l’affidamento sia stato disposto – o, quantomeno percepito dalla donna – in termini appunto “espropriativi” e non di sussidiarietà complementare al suo rapporto con i figli. In nome dell'”interesse del minore” a volte si possono fare atti violenti che ultimamente sono un danno anziché un aiuto alla crescita dei bambini. La morte di questa donna ne è un esempio: un fardello pesantissimo per i figli (che prima o poi lo verranno a sapere) che pure la madre e il tribunale per i minorenni volevano, ciascuno a modo suo, tutelare.