«E invece no, c’era il destino. Dovevo andare e capitare proprio a Tebe», pensava l’Edipo di Pavese. O a Parigi, dirà chi ieri era su quel treno, che si è sbattuto contro il destino. O su una spiaggia di Taranto, quando la mano di Zeus ha fulminato quei ragazzini che giocavano a pallone.
Quando l’attimo fatale capita, ovviamente è dentro l’attimo normale, quello che mai potrebbe trovarci pronti. Siamo tali e quali all’uomo antico, quello che inventava i miti, di fronte al destino che si compie: imbambolati, sperduti, bisognosi di tutto. Sono dettagli, a quel punto, secoli di progressi, conquiste e sicurezze. Sprofondati dentro l’accadere del mistero, di un oltre che ci impone di fare i conti con lui. E con cui non è facile mettersi d’accordo: qualsiasi parola lo voglia ingabbiare in una filosofia di vita non ci lascia in pace. Né chiudere gli occhi sul tragico che ci gira intorno toglie al tragico la possibilità di aprirceli.
Infatti su quel treno di Francia ci tocca aprire gli occhi, mentre ci braccano insieme il silenzio e le parole. Il silenzio chissà se fa in tempo, a trapassarci: arrivano subito i discorsi, a riempire il vuoto con un falso pieno: le cause, le colpe, i soccorsi, il cordoglio, le inchieste, le consolazioni. Proviamo a chiudere in fretta lo spazio al mistero, che invece lo pretende: “puoi anche tagliarmi fuori dalla tua percezione delle cose e da ogni tua azione, io sono però“. Anziché soffocare di tremore, sfioriamo l’orrore protetti da uno schermo. «Voi che per li occhi mi passaste ‘l core»: quell’incipit di Cavalcanti si incarna ancora? O quel che arriva agli occhi non percuote più un cuore anestetizzato, non squarcia l’orizzonte solito, non ci sposta rispetto all’attimo prima?
Lo ha chiesto quattro giorni fa il papa a Lampedusa: «chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca?» (o sul treno). O chi almeno ha chiesto perdono per la propria indifferenza complice, per un cuore che «ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”»? Chi ha domandato almeno «la grazia di piangere sulla nostra indifferenza»? «Chi ha pianto? Chi ha pianto oggi nel mondo?».
Per questa aggressione al pianto e al silenzio abbiamo bisogno, paradossalmente, di parole. Parole vere, che non sentano il mistero come accessorio, fossero anche gemiti di «perché». Scagliati al cielo o alla luna: «tu forse intendi, / questo viver terreno, / il patir nostro, il sospirar, che sia; / che sia questo morir, questo supremo / scolorar del sembiante, / e perir dalla terra, e venir meno / ad ogni usata, amante compagnia» (Leopardi, Canto notturno).
Hanno un bel dire in tanti che sono ingenui quelli che cercano in cielo i perché che non sanno trovare sulla terra. Ma chi sa dirmi, oggi, «che sia questo morir»? Chi si sa rispondere? Non è certo un giro mentale a poterci illuminare: ché dentro non abbiamo risposte, ma ci scoppia una selva di domande. E fioche risposte fuori.
Perciò è quanto mai urgente sapere chi ringraziare e chi bestemmiare. Con quale tu ci giochiamo la partita. In quale pozzo finiscono le lacrime dell’ultimo istante in cui abbiamo incrociato, senza pensarci troppo, gli occhi amati che abbiamo perduto. A chi domandare se lo rivedrò ancora. Chi abbraccerà questo tormento, questo buio: «O luce, / chiarezza lontana, respiro / affannoso, rivolgi gli occhi / immobili e chiari su noi. / È buio il mattino che passa / senza la luce dei tuoi occhi» (Pavese, I mattini passano chiari).