Caro direttore, mi ha molto amareggiato non solo che si possa offendere impunemente un ministro, come ha fatto Calderoli con Cécile Kyenge, ma che sia diffusa una cultura di disprezzo dell’altro, tanto che la responsabile del dicastero per l’Integrazione sia quotidianamente oggetto di minacce di morte. Quanto il ministro ha subìto non è diverso da quanto subiscono tanti esseri umani in questo mondo della tolleranza, anzi è proprio la tolleranza a portare fin qui, fin alla più spietata discriminazione.



Lo aveva previsto in tempi non sospetti Pier Paolo Pasolini che, mentre la cultura dominante esaltava la tolleranza, ebbe il coraggio di andare controcorrente e di scrivere: «[…] Io sono come un negro in una società razzista che ha voluto gratificarsi di uno spirito tollerante. Sono, cioè, un “tollerato”. La tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale. E questo perché una “tolleranza reale” sarebbe una contraddizione in termini. Il fatto che si “tolleri” qualcuno è lo stesso che lo si “condanni”. La tolleranza è anzi una forma di condanna più raffinata. Infatti al “tollerato” – mettiamo al negro che abbiamo preso ad esempio – si dice di far quello che vuole, che egli ha il pieno diritto di seguire la propria natura, che il suo appartenere a una minoranza non significa affatto inferiorità eccetera eccetera. Ma la sua “diversità” – o meglio la sua “colpa di essere diverso” – resta identica sia davanti a chi abbia deciso di tollerarla, sia davanti a chi abbia deciso di condannarla. Nessuna maggioranza potrà mai abolire dalla propria coscienza il sentimento della “diversità” delle minoranze. L’avrà sempre, eternamente, fatalmente presente. Quindi – certo – il negro potrà essere negro, cioè potrà vivere liberamente la propria diversità, anche fuori – certo – dal “ghetto fisico, materiale che, in tempi di repressione, gli era stato assegnato. Tuttavia la figura mentale del ghetto sopravvive invincibile. Il negro sarà libero, potrà vivere nominalmente senza ostacoli la sua diversità eccetera eccetera, ma egli resterà sempre dentro un “ghetto mentale”, e guai se uscirà da lì. Egli può uscire da lì solo a patto di adottare l’angolo visuale e la mentalità di chi vive fuori dal ghetto, cioè della maggioranza. Nessun suo sentimento, nessun suo gesto, nessuna sua parola può essere “tinta” dall’esperienza particolare che viene vissuta da chi è rinchiuso idealmente entro i limiti assegnati a una minoranza (il ghetto mentale). Egli deve rinnegare tutto se stesso, e fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria. […] Dunque, ecco provato quanto ti dicevo: fin che il “diverso” vive la sua “diversità” in silenzio, chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato, tutto va bene: e tutti si sentono gratificati dalla tolleranza che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di “diverso”, oppure, semplicemente, osa pronunciare delle parole “tinte” dal sentimento della sua esperienza di “diverso”, si scatena il linciaggio, come nei più tenebrosi tempi clerico-fascisti. Lo scherno più volgare, il lazzo più goliardico, l’incomprensione più feroce lo gettano nella degradazione e nella vergogna». […] [Io sono come un negro, vogliono linciarmi, di Pier Paolo Pasolini in “Il Mondo”, 20 marzo 1975, poi in Id., Paragrafo terzo: ancora sul tuo pedagogo, in Lettere luterane (Gennariello, trattatello pedagogico), Einaudi, Torino 1976].

Questo è tollerare, è sopportare pazientemente ma fino ad un certo punto la diversità, fino a che questa diversità non divenga pubblica, non sia sotto gli occhi di tutti, e allora la sopportazione raggiunge il livello di guardia ed esplode per quello che è, insopportazione, disprezzo, emarginazione.

La cultura della tolleranza ha portato a questa grave incapacità di stare in rapporto con l’altro, mentre si predica integrazione e accoglienza di fatto si costruiscono forme di difesa ben solide, architetture di estraneità. Non si è capaci di guardare perché si parte dallo sforzo di tollerare l’altro, lo si sopporta, mentre all’origine di uno sguardo all’altro vi è la gratitudine per uno sguardo a sé. Qui sta la questione seria dl caso Calderoli-Kyenge, che non basta considerare il ministro Kyenge una vittima, ci vuole di più, ci vuole un sguardo che l’abbracci per il valore che è. E questo è possibile solo se si guarda l’altro come ricchezza per la propria umanità!

E’ quanto propone Papa Francesco nell’Enciclica Lumen Fidei, là dove scrive: “La luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune. La fede non allontana dal mondo e non risulta estranea all’impegno concreto dei nostri contemporanei. Senza un amore affidabile nulla potrebbe tenere veramente uniti gli uomini. L’unità tra loro sarebbe concepibile solo come fondata sull’utilità, sulla composizione degli interessi, sulla paura, ma non sulla bontà di vivere insieme, non sulla gioia che la semplice presenza dell’altro può suscitare”.

Una promessa commovente e affascinante quella che porta Cristo entrando dentro le relazioni umane, la promessa di una gioia che può suscitare la semplice presenza dell’altro! Si tratta di iniziare una radicale conversione dello sguardo, è questo il compito più urgente di cui abbiamo bisogno noi che guardiamo, che impariamo a guardare l’altro dallo sguardo di amore che abbiamo incontrato. Si va così oltre la fredda volontà della tolleranza, oltre una considerazione politica dei rapporti, oltre i calcoli utilitaristici, oltre le regole della convivenza, si va verso una modalità di rapporti umani in cui l’altro è una ricchezza, una persona che fa crescere l’umano.