A metà ottobre del 1978, Giuseppe Baiocchi aveva 28 anni ed era il più giovane fondatore della nuova corrente giornalistica sindacale “Stampa democratica”. La sua morte porta un dolore profondo a chi lo ha conosciuto e a chi gli è stato amico.
Nel 1978, erano in tutto tredici quei “ribelli” al “correntone” cattocomunista, denominato “Rinnovamento” (una strana, falsa ironia), che presiedeva e disponeva le sorti del giornalismo italiano, non solo dal punto di vista sindacale. Insieme al giovane Baiocchi c’erano Walter Tobagi, Giorgio Santerini, Marco Volpati, Franco Abruzzo, Aldo Catalani, Giuseppe d’Adda, Gianluigi Da Rold, Dario Fertilio, Massimo Fini, Pierluigi Golino, Renzo Magosso, Tino Oldani.
Baiocchi era arrivato al Corriere della Sera da poco più di un anno, ma si era subito segnalato non solo per capacità professionale ma anche per preparazione culturale e politica. Era stato direttamente Tobagi a spingerlo verso il Corriere, perché sia Walter che Baiocchi erano figli di una grande scuola, quella dello storico Giorgio Rumi. Entrambi erano stati assistenti di storia, entrambi erano cultori di storia sindacale.
Se si ripensa per un attimo a quegli anni ormai lontani, c’è da dire che furono proprio personaggi come Tobagi e come il giovane Baiocchi a dare una svolta al giornalismo italiano di quell’epoca e anche, indirettamente, alla politica italiana. In quegli anni imperava il compromesso storico, il governo della “non sfiducia” oppure della “grande maggioranza”. In sintesi vigeva un grande accordo tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista, che si trasmetteva a tutti i livelli, anche e soprattutto nel mondo giornalistico. Sia Tobagi che Baiocchi erano dei cattolici differenti, devoti nel vero senso della parola, ma politicamente “eretici”. Guardavano ad altri assetti politici, ma soprattutto non volevano che dalle stanze di Palazzo Chigi, giù giù fino alle stanze di via Solferino, si diffondesse un fastidioso “pensiero unico”. Se Tobagi guardava politicamente al Psi, Baiochi rimaneva democristiano, ma entrambi restavano soprattutto dei professionisti di prima grandezza e degli spiriti autonomi e indipendenti.
Quella scelta che Baiocchi fece non lo ripagò subito in termini professionali. Andare controcorrente in Italia, anche in quegli anni lontani, ti comprometteva un pochino la carriera o in tutti i casi ti procurava una marea di pettegolezzi maligni da parte della corporazione e dei punti di riferimento esterno, mettiamola in questo modo.
Certo Baiocchi ha dovuto crescere presto. Due anni dopo quella battaglia sindacale, prima al Corriere della Sera e poi all’Associazione lombarda dei giornalisti e in quella nazionale, il suo amico Walter Tobagi venne ammazzato per strada. Fu uno choc per tutti, ma probabilmente per il “Baio”, così lo chiamavamo, fu un colpo terribile, la fine dell’innocenza, della giovinezza e nello stesso tempo di un punto di riferimento che per lui era quello di un fratello maggiore.
Strinse i denti Baiocchi e continuò a mantenere le stesse idee e a lavorare al Corriere della Sera. Ci è rimasto per 23 anni. Divenne un testimone del passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda Repubblica e non risparmiò critiche azzeccate, puntualizzazioni anche irridenti verso questo “grande cambiamento” molto sponsorizzato e forse in parte teleguidato dalle stanze “che contano” di via Solferino. Quando gli inviati andavano in “missione”, cioè giravano l’Italia, Roma soprattutto e i suoi palazzi, per “pezzi” politici, Baiocchi consigliava, poi leggeva attentamente gli articoli e azzeccava sempre il titolo.
Non era un personaggio facile, il Baio, le sue idee le difendeva con tenacia e spesso ci si trovava in contrasto. Ma in tutti i casi “metteva i punti sulle i” sempre in modo logico e ragionato.
Chi scrive aveva una grande dimestichezza con Baiocchi e un’amicizia che travalicava spesso alcuni contrasti. Insieme conoscemmo la Lega e Umberto Bossi nei primi anni Novanta e ci interessammo a questo fenomeno che, pur figlio della cosiddetta seconda Repubblica, sembrava in grado di portare un profondo rinnovamento nella società italiana. Il Baio aveva anche una casa a Ponte di Legno, dove spesso mi ospitava, e questo favoriva i lunghi incontri notturni con Bossi. Vedevamo con indipendenza i pregi e i difetti del senatur, ma alla fine restai deluso io e poi anche Baiocchi, che per un periodo diventò direttore de La Padania.
Ne riparlammo il 28 maggio di qualche anno fa al “Parini”, il liceo che aveva frequentato Walter, per una delle tante tristi commemorazioni che avevamo fatto insieme.
Anche in quell’occasione, l’ultima in cui ci siamo visti e parlati, il Baio sembrava sempre uguale, lucido, pessimista sul futuro italiano, alto e grosso, con la perenne sigaretta in bocca. Mi parlò in quell’occasione soprattutto della sua famiglia che adorava. Qualche mese fa, mi arrivò la notizia della sua terribile malattia e qualche settimana dopo gli telefonai. Mi disse, con grande lucidità e anche tranquillità, che “tutto quello che si doveva fare, era stato fatto”. Ma che di certo non stava bene. Parlammo delle solite nostre cose, naturalmente anche di Walter. Poi mi salutò, sperando che ci vedessimo presto. Lui, il più giovane di noi “ribelli”, è arrivato a rivedere Walter prima.