Scivola via rapidamente la morte di Andrea Antonelli, 25 anni, classe 1988. Scende giù nei sommari delle agenzie e dei siti di news per far spazio alla nascita del royal baby, alla partenza di papa Francesco per Rio. E scende perché Antonelli non aveva ancora raggiunto la sua meritata gloria, era uno ancora troppo “normale” per poter essere celebrato dieci giorni come gli eroi dell’antica Grecia o nove come i Papi quando muoiono. E poi, diciamocelo, dopo la vicenda di Simoncelli avvenuta due anni fa, i media si sentono ancora molto saturi sull’argomento: giovane che muore, dolore dei fan, dei coetanei, dei colleghi, funerali “sportivi” con striscioni e bandiere, i classici “continueremo noi il tuo sogno”, “eri troppo giovane per lasciarci”, “resterai sempre nei nostri cuori”.
No, questa volta per un reportage del genere non c’è tempo. Il rito collettivo che esorcizza la morte e ci restituisce al banale quotidiano con la coscienza a posto non può andare in onda. La parola d’ordine è smorzare, tacere, millantare un silenzioso rispetto. Io so a volte di essere duro quando scrivo, forse focoso e intemperante, ma mi piacerebbe che uno di questi signori giornalisti andasse dal padre di Andrea, che era presente a Mosca, che ha visto suo figlio morire dinnanzi ai suoi occhi, e gli dicesse che questa volta la notizia non è pienamente di serie A. Ma nessuno parlerà al papà di Andrea, come nessuno parla alle decine di genitori che vedono il loro figlio partire per il cielo senza che alcuno, a parte il clamore dei primi giorni, capisca realmente.
Credo anch’io che sia meglio non iniziare il “festival dell’ipocrisia”, credo anch’io che il dolore, per essere vissuto, abbia bisogno di uno spazio diverso dalla piazza e dal sensazionalismo mediatico. L’ho visto con tanti amici che, come Andrea, sono partiti per il Cielo. Ma tutto questo non è un buon motivo per assolvere “il sistema”, questa tecnica di “espansione e riassorbimento della notizia” che nasconde la nostra incapacità di vivere e di giudicare la morte. Io, signor Arnaldo (questo è il nome del padre di Andrea) non so come si faccia a vivere questa cosa, non ho lezioni da darle sul dolore e sulla morte, non ho verità da spiegare se non quelle che lei sa e che intuisce meglio di me in queste ore in cui il dolore si mischia alla confusione e ad un umanissimo desiderio di giustizia.
Ma so che Lei è consapevole che nessuno le porterà indietro suo figlio. Nemmeno le parole più vere del mondo. Lei, signor Arnaldo, è di fronte alla realtà nuda e cruda e non può scappare, fuggire o fare finta di niente. Lei non può. E nessuno può nemmeno piangere al suo posto, sentire in vece sua quel vuoto che grida e che urla dentro – a volte all’altezza del diaframma, altre volte nello stomaco – “Dio dov’eri? Dio perché?”. No, nessuno può.
Eppure la realtà, la vita, proprio quando urge e ci porta agli estremi confini del dolore, ci costringe a dare il giusto nome alle cose e alle persone. Mai come oggi lei sta imparando che Andrea non era suo o di sua moglie, Andrea era un dono. Noi non possiamo far nulla per togliere il dolore, ma la sofferenza – che è la nostra percezione del dolore – quella possiamo curarla. Nella misura in cui noi non impariamo a chiamare le cose con il loro nome, nel momento in cui la vita le tratta per quello che sono, noi soffriamo in un modo gigantesco. Ma se ci educhiamo a dare il nome giusto alle cose, allora quando il dolore arriva – perché il dolore non si può evitare – allora la sofferenza può trovare sentieri stupendi per esprimersi e per ricostruire la nostra vita.
Ogni figlio è un dono. Ed ogni figlio ci è dato per essere restituito. L’illusione borghese, invece, tratta i figli come parti fondamentali di un disegno di benessere cui noi abbiamo diritto. In quest’ottica i nostri figli diventano dei “dovuti”, non dei “donati”. Raramente siamo disposti a restituire ciò che ci è dovuto, ciò che il Cielo ci deve per compiere il nostro bene. Lo dico pensando a William e Kate e a tutte le coppie che non possono avere figli, come a quelle che ne hanno avuto recentemente: quella creatura non è vostra, vi è stata consegnata per un destino misterioso, infinito, dinnanzi al quale potete solo inginocchiarvi.
Per questo la Chiesa pone, con la sua incredibile sapienza, il gesto del Battesimo come inizio di ogni cammino umano. Non per assicurarsi un’altra opzione religiosa da esibire nelle statistiche, nè per cristianizzare un rito di iniziazione e accoglienza tipico di molte specie di mammiferi, ma per un atto di onestà della ragione che fa dire ai genitori cristiani di fronte al popolo: “questo non è mio, è di Cristo”.
Come stona tutto questo col nostro continuo trascorrere la vita a difendere i nostri pargoli, a fare branco con loro, senza renderci conto che la loro statura non consiste nell’essere nostri, ma nell’essere voluti come sono volute le stelle in questo magnifico cielo d’estate. “Non insegnate ai bambini la vostra morale” supplicava Gaber in una delle sue ultime invettive contro la borghesia, “accompagnateli con discrezione verso il loro destino” aggiungerebbe don Giussani. Questa è la strada del bene, la strada del compimento, che ci prepara non al dolore – sarebbe ipocrita anche solo pensarlo – ma alla dignità che cela ogni sofferenza.
Come quella di Maria. Una sofferenza che è rimasta nella storia perché vissuta fino in fondo, in tutta la sua drammaticità, senza che essa diventasse mai disperazione. Perché? Perché Ella aveva sempre saputo, fin dal primo giorno, il nome di Suo Figlio: Dono. Con questo nome nel cuore, non con la pretesa di chi signoreggia su una vita non sua, aveva accompagnato il proprio Figlio all’incontro con l’Infinito mistero della vita, quel Mistero buono che la aveva resa donna, moglie e madre.
Se noi italiani avessimo dovuto scrivere il Vangelo non avremmo potuto resistere alla tentazione di far apparire il Risorto prima di tutto alla Sua mamma. Ma non è andata così. Anzi, i Vangeli non riferiscono di alcun contatto tra Maria e Gesù dopo la Resurrezione. Il Risorto sapeva che il Destino di Sua Madre non consisteva in una stabilità psichica o affettiva, ma nell’essere Discepola, Figlia del Suo Figlio. Per questo Papa Francesco è andato a Santa Maria Maggiore a chiedere la Grazia che questa “settimana della gioventù” non sia un rito mediatico, ma un autentico fatto di conversione a Cristo nella Chiesa.
Siamo uomini in cammino, signor Arnaldo. Nessuno di noi può dirle che fare o come fare. Ma, se posso offrirle una piccola certezza, non perda d’occhio la sua vita e quella di sua moglie, non smetta di vivere per ricordare suo figlio. Ma continui il cammino dell’esistenza fino in fondo. E vedrà che un giorno, quando meno se lo aspetta, troverà Andrea su una spiaggia pronto a cucinarle dell’ottimo pesce. Egli non è qui, infatti, è Risorto. E adesso anche Lei inizia la Sua vita da Figlio, da Discepolo di un Mistero che abbraccia tutti. E questa non è una notizia di serie B, è la Buona Notizia che il suo dolore, come ogni dolore, davvero aspetta.