La sveglia suona all’alba e non sai se scaraventarla contro il muro o affogarla tra i cuscini. Anche perché hai la netta percezione che nei prossimi otto giorni non ti capiterà più di avere la chiara cognizione di cosa strilla e sguaita al tuo risveglio tanto grave sarà il tuo stato di incoscienza. La vita del vaticanista embedded è dura, anzi durissima, a cominciare dai traumi plurimi provocati dalle levatacce all’alba e dallo svuotamento della propria libertà e identità personale, in cambio di una catalogazione in base alla testata di appartenenza e ad un tesserino “vamp” prezioso quanto il proprio sangue. Però a volte ripaga dal martirio di intruppamenti marziali (necessari e obbligati per mantenere ordine e disciplina in un gruppo dall’egocentrismo dilagante) e dai ritmi da miniera (giuro che a volte in un intero viaggio papale non si riesce a vedere la luce, seppelliti in sale stampa con aria condizionata a palla e poltrone e moquette con stampa animalier).
Come è accaduto ai 76 giornalisti, corrispondenti, fotografi e cameramen al seguito di Francesco, tanto sciagurati quanto fortunati, stivati con computer, obiettivi, ipad, registratori e macchine varie in coda all’airbus 330 dell’Alitalia che ha portato Bergoglio non proprio a casa, ma vicino. Dopo il risveglio shock, la corsa all’aeroporto e l’inevitabile trafila per entrare nella truppa degli accreditati sul volo papale abbiamo avuto la non ultima soddisfazione di passare ben più di un ora con l’uomo che non a caso è diventato l’icona glamour di Vanity Fair e Time, l’idolo delle periferie del mondo, il pastore amatissimo di una Chiesa in piena fioritura.
Il Papa alla vigilia aveva esibito una incurabile allergia alle interviste plurime, avvertendo che non avrebbe risposto alle domande ad alta quota ma che era intenzionato a dedicare a ciascuno dei giornalisti a bordo qualche minuto. Non il Francesco-pensiero, ma Francesco stesso. Sebbene appartenga ad una categoria che in più di un’occasione si è rivelata popolata di bestie (soprattutto nel commentare, oltre che riportare fatti e notizie vaticane) mi ha sorpreso vedere come i miei colleghi si siano tuffati a capofitto nell’occasione che si presentava, evitando di strappare al pontefice qualche commento o discutibile esclusiva, quanto piuttosto approfittando per metterlo a parte dei loro affetti, delle amicizie comuni, delle gioie e degli inevitabili carichi di dolore.
Insomma oltre il Papa, sovrano della città del Vaticano, leader morale internazionale, capo della cattolicità, abbiamo visto il pastore puro e semplice, interessato alla quotidiana fatica di un gruppo di uomini e donne, disgraziati e felici come molti altri sul pianeta. E lui si è concesso a tutti, dispensando sorrisi, cenni del capo, aneddoti e abbracci, benedizioni e consigli.
Come un parroco fuori dalla Chiesa, la domenica dopo la messa. Credetemi, alcuni piangevano come bambini. Io no. Ero troppo felice, nel consegnarli il libro di un amico e le preghiere dei miei nipotini, innamorati pazzi, come tutti, di Papa Francesco. Non che sia riuscita a spiaccicare più di dieci parole, ma stavo bene, a mio agio, davanti a quell’uomo in bianco, interessato alla mia vita, che mi guardava tranquillo. Quando sei di fronte ad un uomo vero, non ti fai − e non gli fai − tante domande. Lo guardi e basta.
Certo c’è stato chi gli ha chiesto un consiglio su cosa leggere, chi gli ha regalato la bandiera del proprio paese, chi si faceva benedire tutta la valigia da cabina, chili di coroncine e rosari, più la foto dei parenti fino al terzo grado, ma anche chi si avvicinava per sussurrare qualcosa sulla spalla, o per baciarlo a schiocco sulle guance. Certi di trovare la consolazione di un istante, l’attenzione misericordiosa che caratterizza il suo pontificato, la benevolenza di un cuore largo. È stato in piedi per tutto il tempo, a stringere mani, scrutare volti, ascoltare lingue e accenti tra i più variegati. E sembrava felice. Mi correggo, “era” felice. Di farsi carico di tutta quella umanità ansiosa, magari presa e stritolata dalle deadline, le righe da spedire, la connessione impossibile, le bizze dei colleghi al desk, piena di sé quando deve azzardare analisi e ipotizzare scenari, ma sicuramente travolta dal suo fascino naturale e accogliente, dalla sua volontà di stabilire un’alleanza, un’amicizia per il bene. Valentina Alazraki, vaticanista messicana con 34 anni di viaggi papali sulle spalle, era stata incaricata di salutare il pontefice a nome del gruppo, in uno spagnolo colorito e familiare, al suo arrivo tra i giornalisti. Aveva usato un’espressione latina per dire che sapeva bene che i giornalisti non gli vanno a genio: “non siamo i santi della sua devozione”, aggiungendo, e scatenando una sonora e papale risata, che sembrava qualcuno sceso nella fossa dei leoni. Beh, alla fine sembra che i leoni, Francesco, li abbia addomesticati. Anzi prima di lasciarci ha persino detto di sentirsi un po’ come il profeta Daniele: triste, perché in fondo le bestie non erano poi così feroci. Sigh!