Non c’è la luna su Copacabana, e non si vedono neanche le stelle. E’ scomparsa la spiaggia e l’oceano è ridotto al silenzio. Le onde si infrangono mute, mentre la falce di terra lunga 4 kilometri palpita e sussulta. Lo spicchio di una delle baie più famose del mondo ha provato l’umiliazione della sua bellezza annullata. Lo spettacolo stasera è un altro. La chiesa del futuro. Milioni di giovani, forse due, che cantano, gridano, pregano, moltiplicano improvvisamente il silenzio, per accogliere l’unico che conta, Cristo, pane, vita, speranza del mondo. E Francesco è li, la mano sul mento, a studiare giovani operai che costruiscono una chiesa con assi e scale, su un palco di risulta, ma grande quanto basta, al ritmo di una ballata medievale, venata di sfumature carioca. Si evoca un altro giovane, un altro Francesco, che oltre 7 secoli fa fece della povertà una sorella e del Crocifisso il suo amante.
Quel ricco assisano a cui il Signore diede l’ordine di riparare la sua casa. Un mandato preciso che il borghese figlio di mercanti ci mise un po’ a capire, squadrando le pietre, spaccandosi le mani e la testa. Per poi diventare il protagonista della più grande rivoluzione della Chiesa del secondo millennio. E’ il santo più amato da Bergoglio ad introdurre la serata delle meraviglie, la notte della fede, l’ultimo atto di una giornata storica per il Brasile e per l’intero continente Latino Americano. E non solo perché prende forma l’ultimo atto della JMJ 2013, festa del Vangelo e dei cuori giovani, ma perché Papa Francesco ancora una volta ha prestato il suo sguardo profetico per rinnovare la casa del Signore. Gli organizzatori della JMJ brasiliana non è che ne abbiamo azzeccate molte, tra il Campus Fidei trasformato in pantano, il collasso del sistema di trasporto e la non facile impresa di far saltare i nervi anche ai più pazienti e imperturbabili dei pellegrini.
Ma una cosa l’hanno centrata in pieno. La metafora della Chiesa in costruzione, la scenografia compressa (perché pensata per il palco immaginifico sprofondato nella melma) con cui si è animata la veglia eucaristica dei giovani e il Papa. Magari è stata la solita sfacciata fortuna con cui i brasiliani sgusciano via dalle più complicate situazioni, oppure il talento con cui driblano e saltano il più feroce catenaccio o ancora la capacità di affidarsi al destino e all’istinto per “dar un jeito” , una svolta. Senza dubbio però si sono salvati in corner e in una JMJ in cui hanno sbagliato molto o quasi tutto, hanno centrato la chiave di interpretazione dell’evento e dell’intero viaggio. Perché Bergoglio ha scelto proprio il suo ritorno a casa (o nelle vicinanze non importa) per continuare a proporre l’architettura di una Chiesa “maestra di umanità”, finalmente e definitivamente postconciliare.
La tentazione di tracciare un bilancio è già forte. Quando sei alla fine di un viaggio papale, arriva sempre il punto in cui stanchezza e sfinimento ti portano a credere di aver capito già tutto, di chiudere e archiviare il capitolo. In genere è il momento in cui parte la fregatura e il pontefice di turno ti spiazza. Mi è successo con Giovanni Paolo II, innumerevoli volte con Benedetto e certamente non la scamperò con Francesco. Ma la giornata di oggi induce a sfidare i precedenti e sorregge la presunzione di un giudizio definitivo. Sin dal mattino, nella cattedrale caleidoscopica di Rio dove ha celebrato la messa con tutti i Vescovi del mondo arrivati in città per accompagnare i propri ragazzi, il Papa ha approfittato per continuare a disegnare la sua Chiesa: fedele a Gesù, estroversa, sbilanciata sulle periferie, siano villas miseria, favelas o cantegriles, poco chioccia e molto ardita, pronta a trattare i poveri come VIP , andando incontro ai lontani e agli “scarti” della cultura efficientista e pragmatica.
Ma è nel pranzo con i Vescovi brasiliani che ha dato il meglio di sé: un discorso lunghissimo per i suoi standard, articolato e denso, che conteneva persino note, alla maniera Ratzingeriana. Letto integralmente e con sottolineature emozionali, talmente tosto da far andare di traverso qualche boccone a più di un presule che già pregustava il banchetto in compagnia del Papa con foto di rito finale. E invece ecco una riflessione sulla chiesa brasiliana, con Aparecida come faro. Il santuario con la sua storia miracolosa e l’assemblea della conferenza episcopale dell’America Latina tenutasi proprio nella cittadina della Vergine nel 2006, chiavi di lettura per la missione della Chiesa. Quasi un enciclica ha sussurrato un mio collega.



E non aveva tutti i torti a cominciare dai toni lirici con cui Bergoglio ha tracciato un filo rosso tra la miracolosa pesca della statua della Madre di Dio e la situazione in cui è immersa la Chiesa oggi. Con il suo bisogno di riscoprire la lezione dell’umiltà di Dio, il suo entrare nella storia “sempre attraverso le vesti della pochezza”, la potenza nel “ricomporre ciò che è fratturato, compattare ciò che è diviso”. Una chiesa la cui forza “non abita in se stessa, ma nelle acque profonde di Dio, nelle quali essa è chiamata a gettare le reti”. Sono sicura che qualcuno starà già pensando bello, ma dov’è Francesco. Niente paura dopo la bellissima lettura teologica del ripescaggio miracoloso della statua della Madonna, Bergoglio è tornato al linguaggio che lo contraddistingue. Chiedendo di riscoprire la “grammatica della semplicità” per non rimanere fuori dal Mistero. L’accusa è stata pesante: “abbiamo disimparato la semplicità, e importato una razionalità estranea alla nostra gente”. Insomma al posto del rosario, fuffa. 
E poi la pena per chi ha lasciato l’ovile, i tanti affascinati da proposte allettanti, delusi da una chiesa troppo debole, lontana dai loro bisogni, fredda e autoreferenziale, rigida in linguaggi lontani. Un cristianesimo infecondo, incapace di generare senso, che si compiace di proporre una “misura troppo alta”, un ideale di vita fuori dalle comuni possibilità. Ecco ha spiegato Francesco, serve una Chiesa che ridia cittadinanza a tanti suoi figli che camminano come in un esodo. Ritornando con ritmo ciclico sulla sua ossessione del “tutti inclusi”, sull’immagine di una Chiesa che deve riscoprire le viscere materne della misericordia, necessarie per inserirsi in un mondo di “feriti”.
Una lezione dura quella ai vescovi. Implacabile. Ma un giudizio con cui ognuno di noi deve fare i conti. Ma senza abbattersi o cedere al pessimismo. Per questo stasera l’ho amato quando ha incantato Copacabana con le sue parole, il suo monito a non “stare al balcone”, a non fare della propria fede una coperta inamidata, un abito da parata. Insomma quando ha invitato i giovani a non fare gli errori dei propri padri. Ma più di tutto mi è piaciuto quel grido; “Adelante siempre”. Guardiamo avanti, che la vita è bella. Con Gesù.

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