Si parte per le ferie, ma in cuor mio vorrei chiamarle ancora vacanze. Già, le ferie son robe da grandi, mentre le vacanze (dal termine vacare) ci riportano alla fine della scuola e a quel periodo lunghissimo dove si improvvisava sempre qualcosa di memorabile. E io ricordo che le mie vacanze, quelle più belle, non erano al mare (che sembrava quasi una medicina imposta dal dottore, perché faceva bene ai bambini), ma in campagna, al mio paese, sulle prime colline del Monferrato che erano colorate di giallo per via del grano appena tagliato e delle balle di fieno accatastate su quei prati rasati e secchi come la barba bianca di un vecchio contadino. Quando scattava il primo di agosto, finalmente, si arrivava tutti lì: io e mio fratello, Urbano (Cairo) e i suoi fratelli. Eravamo i “milanesi”, anche se le radici di Masio e di Abazia di Masio era fortissime: mio nonno Paolo era stato il macellaio di Masio, il nonno di Urbano era quello d’Abazia. E quando da una stalla arrivava un bue che percorreva la strada principale del paese, noi ragazzini ci mettevamo dietro. Poi, a metà strada, c’era il mattatoio e la macelleria dei Cairo. A quel punto il bue veniva messo sulla pesa pubblica e con un arnese puntato sulla fronte che chiamavano pistola, avveniva la mattanza. Il bue si accasciava di colpo e iniziavano le operazioni di macellazione. Ma a quel punto venivamo allontanati. Quanti ricordi al mio paese: le partite di calcio, le feste di paese, che si organizzavano al bar e non c’erano i contributi pubblici. Ognuno ci metteva del suo e si faceva a gara per invitare i cantanti più in voga del momento: Orietta Berti, i New Trolls, i Vianella. Un tizio bizzarro del paese, un giorno organizzò addirittura un concerto, nel paese da cui ha origine la famiglia del Papa, Portacomaro, con un ignaro Adriano Celentano. Salvo poi sparire con l’incasso. Ne avevano parlato i giornali nazionali, perfino il Corriere della Sera e i carabinieri avevano occupato per più giorni il centro di Abazia di Masio per fare interrogatori. Era l’estate del 1974 e io avevo 13 anni.



L’altro giorno sono stato a Monastero Bormida (At), alla festa più antica del Piemonte, quella di San Desiderio, dove quei bovini di razza piemontese della mia infanzia erano in mostra: 80 capi. C’erano gli allevatori, c’erano i trebbiatori, che hanno dimostrato come si faceva il grano fino a pochi anni fa. Nessuna novità, dunque, solo nostalgia? No, la novità è la famiglia Merlo, ovvero della creatività e dell’imprevisto: 12 figli, tutti impiegati nell’azienda, Francesco Merlo, il papà, ha mano a mano adattato alle esigenze della vita. E per dare spazio a tutti ha trasformato la piccola impresa con stalla e negozio, in un’azienda agrituristica con delle casette di legno bellissime, ma anche un ristoro dove si assaggia l’asado argentino (quanti da queste parti sono emigrati in quella terra, persino i miei nonni e i miei zii. E mia mamma nacque là, nella Pampa sconfinata). Nell’azienda San Desiderio (regione S. Desiderio, 40 – tel. 014488126) c’è poi un macello dove si producono salumi e carni e una bottega, legata al circuito di Campagna Amica che rivende tutte le cose buone della campagna (è fra le prime in Italia). L’altra sera a cena, per fare festa, sono arrivate 700 persone, ma la gente che va a fare la spesa ogni giorno, in quella deliziosa frazione di San Desiderio che è diventato un villaggio dedicato al gusto, è molta di più. Alla sera, a casa, ho assaggiato quelle robiole di Roccaverano, dal colore bianco perlaceo, che producono in paese, all’azienda Cà del Ponte (regione Sessagna, 1 – tel. 014488293). Buonissime! E Pinuccia Rizzolio, 22 anni, sta lavorando per il nuovo caseificio con annesso impianto fotovoltaico e ad una nuova stalla: 50 bovini, 130 capre e 10 maiali. Lei ci crede. E non è affatto una banalità, quello che si chiama “il sogno della giovinezza”: è il motore della microeconomia italiana. Ora saccheggiando Montale nella sua poesia “Il viaggio”, vien da dire: “l’unica salvezza è un imprevisto… ma è una stoltezza dirselo”.

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