Anche in occasione della festa che ha segnato la fine di Ramadan, il mese di digiuno osservato annualmente dai musulmani, Papa Francesco ha voluto in qualche modo distinguersi: invece di lasciare che il solito messaggio augurale fosse firmato e trasmesso dal Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, l’ha steso e sottoscritto di persona.
Certamente questo modo di agire corrisponde da un lato al carattere schietto e comunicativo del nuovo Pontefice e dall’altro al desiderio di mandare un forte segnale di solidarietà a una parte del mondo che sta attraversando un periodo particolarmente travagliato della sua storia, ma si pone in continuità coi molti gesti che anche i suoi predecessori hanno compiuto in analoghe situazioni.
C’è tuttavia in questa sua iniziativa qualcosa che va ben oltre il semplice atto di cortesia, qualcosa che dovrebbe sollecitare la riflessione di tutti e che riguarda la stessa “grammatica” del dialogo. Prendendo egli stesso la parola ed “esponendosi” in prima persona in quest’occasione, il Papa ci ha indicato la via da seguire per fare esperienza diretta di cosa vuol dire mettersi in relazione con l’altro.
Il termine “dialogo” è infatti spesso usato in modo formale, per salvare un minimo di cortesia nei rapporti umani, per mostrarsi civili, ben educati o politicamente corretti, ma così resta insipido e mostra al più una volontà tesa a evitare conflitti, senza sapersi spingere oltre.
Per un credente, invece, ogni contatto umano assume un valore quasi “sacramentale” e di conseguenza richiede molto di più di una generica benevolenza per realizzare quell’ospitalità reciproca che, fin da Abramo, contraddistingue gli autentici “uomini di Dio”, a qualunque religione appartengano.
È lo stesso messaggio del Papa a ricordarlo, quando sottolinea anzitutto i propri sentimenti “di stima e amicizia per tutti i musulmani” sull’esempio del grande santo di cui ha volto prendere il nome, modello di una “fratellanza universale” che si riconosce nel medesimo Creatore e che sa quindi farsi prossimo a tutti.
Non si tratta dunque di rispettarci a vicenda per mero amor di quieto vivere, “tollerando” le differenze come una fastidiosa fatalità cui non possiamo sottrarci. È dall’esperienza della nostra vita quotidiana che dovremmo apprenderlo: neppure i nostri animali domestici o persino le nostre piante riuscirebbero a sopravvivere se percepissero, anche implicitamente, che li sopportiamo a malapena e preferiremmo che non esistessero!
Eppure ci sono intere categorie di persone che per motivi di etnia, credo, lingua ecc., sono ancora trattate come “indesiderabili” e troppo spesso il rifiuto e il disprezzo nei loro confronti giungono a manifestarsi platealmente e persino a venir giustificati con argomentazioni che si pretendono “fondate”.
Una carenza educativa radicale e grave è additata dal Pontefice senza mezzi termini quale origine di questa deriva, ma allo stesso tempo il suo messaggio indica la famiglia e la società come i luoghi che devono tornare a svolgere il proprio ruolo per poter superare questa crisi, specialmente a favore delle nuove generazioni.
Si tratta di scelte di fondo e di responsabilità, questioni serie da gestire con mezzi appropriati e sul lungo periodo. Tutto il contrario rispetto a politiche opache, timide e superficiali che si consumano in polemiche tanto roboanti quanto sterili, contribuendo a renderci vittime piuttosto che protagonisti di quanto ci accade.
Le cose importanti, su cui si basa in buona sostanza la qualità della nostra esistenza, sono quelle che facciamo di persona, prendendoci cura di noi stessi e di chi ci circonda giorno per giorno, con dedizione e pazienza, con saggezza e generosità… quando però finiscono per diventare concetti astratti da scrivere con la maiuscola come Dialogo e Pace, Fratellanza e Solidarietà, sembra che siano altri e altrove a doversene occupare. Papa Francesco, semplicemente, ci ha ricordato che non è affatto così.