Il Papa ha dedicato l’Angelus della XIX domenica del tempo ordinario al tema del desiderio di Cristo. I cristiani, dice il Papa, sono coloro che desiderano la presenza e l’amore di Cristo. Il tema del desiderio, affrontato nei giorni delle stelle cadenti, ha un certo fascino. La nostra epoca è esperta di “desideri” e teorizza che una società giusta è una società che permette ad ogni uomo di realizzare i propri desideri, qualunque essi siano. 



Ma anche la Chiesa non è impreparata sul tema: il desiderio umano, spesso si dice, è la premessa per arrivare all’incontro con Cristo. Tanta revisione culturale, operata da un certo cattolicesimo militante dalla fine degli anni sessanta, ha individuato nella ricerca del desiderio che abita ogni autore, della filosofia come della letteratura, il mantra generativo di ogni “controcultura cattolica” che non volesse ridurre le esperienze letterarie o le produzioni filosofiche a prodotti dello sviluppo sociale o a incarnazioni di spiriti superiori espresse mediante parole ricercate o mere convenzioni linguistiche. 



In realtà quello che dice il Papa esula da tutti questi dibattiti intellettuali e pone una questione seria: è l’incontro con Cristo che genera in noi il desiderio della Sua presenza. Il desiderio non è la premessa ideale per diventare cristiani, ma il segno più evidente di una fede autentica. L’incontro con Cristo non mette fine alle domande, alle incertezze, ai dubbi, ma spalanca queste tipiche espressioni dell’animo umano ad una radicalità inaudita, per cui ogni generazione cristiana sente il bisogno di riappropriarsi delle verità dei suoi padri proprio attraverso il dramma della crisi, della contestazione, della domanda lucida e profonda. 



Oggi attorno a noi vediamo poco di questo. La Chiesa Cattolica Occidentale è dilaniata al suo interno da spinte di segno opposto che potremo, per semplicità, ricondurre a tre istanze: la riduzione del cristianesimo a credo, a insieme di verità da professare unanimemente alla lettera; la riduzione della vita cristiana a rito o ad attività pastorale cui ogni membro  della Chiesa deve prendere parte per poter dire di “fare un cammino di fede”; la riduzione della fede cattolica a indicazioni morali che dovrebbero permeare la vita privata o pubblica degli individui (a seconda che si sia di destra o di sinistra). 

Al di là dell’inventario delle riduzioni, utile fino ad un certo punto, il segno più evidente che la fede cristiana ha perso per strada la drammaticità, e quindi il desiderio di Cristo, sta nel fatto che sempre più raramente nella comunità cristiana si chieda o ci si muova per l’Unità e per la Pace che, per inciso, sono gli unici due doni che chiediamo per la Chiesa nella Santa Messa.

Siccome abbiamo smesso di lottare per riappropriarci della nostra fede, con tutti i dubbi e i peccati che ci portiamo dietro, e siccome abbiamo ridotto la nostra fede all’affermazione di un aspetto del vivere, ciò che ne risulta è che si è spenta in noi la passione per la Chiesa. Capita sempre meno di rado di assistere a isteriche zuffe tra cristiani per rilasciare patenti di ortodossia e capita sempre più spesso che all’interno delle stesse associazioni o movimenti  i personalismi e le liti balcanizzino le realtà ecclesiali fino a renderle di scandalo per gli stessi aderenti e per il mondo che le osserva. Chi cerca più la Pace? Chi cerca più l’Unità? Non basta un effimero riferimento all’autorità comunemente riconosciuta, nè lo svolgere le stesse pratiche liturgiche o pastorali: ciò di cui oggi c’è bisogno è che la fede ritorni ad essere un’avventura umana drammatica dentro le circostanze della vita. 

La Chiesa, ma vorrei dire i movimenti e le associazioni − come le parrocchie −  non ha bisogno di compagni di interessi, né di compagni di riti o di bisbocce, ma di compagni di vita, compagni di dramma, compagni di “desiderio”. Non siamo pochi quelli che abbiamo smesso di desiderare Cristo e, per questo, abbiamo smesso di desiderare la pace e l’unità della Chiesa. Al suo posto sono sorti sempre di più il desiderio del potere, dentro e fuori le comunità, del denaro, magari “usando” le stesse comunità, e del piacere, riducendo le comunità a compagnie da spiaggia o a club di facili sensazionalismi religiosi. L’analisi che offro è certamente impietosa perchè impietoso è il desiderio del nostro cuore. Annegarlo, anestetizzarlo, dice Papa Francesco, significa arrendersi al mondo e “cambiare il tesoro” della propria vita. 

Quando il tesoro della mia vita, infatti, diventa la soddisfazione del mio capriccio o la custodia del mio piccolo sistema (la mia donna, i miei amici e il mio clan) si condanna il cristianesimo, e il proprio Io, all’irrilevanza. Per questo il Meeting di Rimini, che si aprirà il prossimo 18 agosto, ha messo al centro “l’emergenza uomo”. Perché quando l’uomo smette di accorgersi di essere amato, e quindi di cercare il volto del proprio Innamorato dentro tutte le circostanze della vita, tutta la società crolla e la comunità cristiana diventa sterile. 

Francesco ce lo chiede senza scrupoli: “il vostro cuore, quindi, sa ancora desiderare? […] E che cosa desidera?” Senza questa freschezza, senza questa passione, diventeremo solo dei professionisti della fede, perdendo lo status più bello che è quello di innamorati, di amati da un Amante tenace che vuole solo noi, la nostra vita. E la vuole per portarla alla Festa che da sempre Lui ha preparato per il nostro cuore. Che fine hanno fatto, quindi, le nostre lacrime? Che fine hanno fatto le nostre lotte? Che fine hanno fatto i nostri desideri? La vita non c’è per diventare cinici, né per ridursi ad avere la sensibilità dei sassi. La vita c’è per correre. Per correre verso Cristo. Forse è il caso di rimetterci in discussione. Forse è il caso di seguire Papa Francesco.

Leggi anche

IL PAPA E LA GUERRA/ Mentre la carne sanguina, il realismo della pace viene solo dal VangeloPAPA FRANCESCO/ Lo sguardo di Bergoglio su ambiente, economia e guerreUCRAINA, RUSSIA, EUROPA/ "Dal corpo di pace alla dittatura Ue, cosa mi ha detto papa Francesco"