Caro direttore,
Molte volte mi è stato richiesto di intervenire su fatti di cronaca che hanno profondamente segnato le coscienze di decine di famiglie e di genitori. Oggi ti scrivo di mia spontanea volontà perché colpito dalla caciara – così mi sembra si dica a Roma – che giornali e commentatori stanno facendo attorno alla vicenda del ragazzo quattordicenne della Capitale, suicidatosi pochi giorni fa perché, secondo quanto egli stesso ha scritto sul proprio pc, incompreso ed emarginato a causa della sua “omosessualità”. Ciò che mi colpisce, in questa vicenda, sono tre cose che vorrei condividere con voi e con chi abitualmente ci legge. Anzitutto mi stupisce come questo ragazzo sia trattato come un uomo adulto, finito e formato. Quanti di noi hanno a che fare con ragazzi di quattordici e quindici anni e vedono come la loro età sia un’età priva di tanti “nomi”: essi, infatti, non sanno ancora chiamare le cose che provano, che sentono e che vivono con un nome certo e inequivocabile e – allora – affidano al loro mondo interiore i nomi che captano in televisione, sui giornali e nei discorsi a tavola. Io mi domando: con quale autorità il mondo dell’informazione sta entrando nell’animo di questo ragazzo sbattendolo in prima pagina come un essere umano formato, distinto, culturalmente definito? Che cosa ne sapete, amici dei media, di quello che questo ragazzo viveva, delle sue lacrime, dei suoi pugni chiusi scagliati chissà dove mentre cercava di capire chi era e provava disperatamente a dare un ordine alla sua vita che, inspiegabilmente, gli saltava addosso donandogli emozioni e parole di cui egli stesso a stento intuiva il significato? Chi siamo noi per parlare? Chi siamo noi per giudicare? Chi siamo noi per aver capito tutto di lui, quando lui capiva così poco di sé, come tanti di noi – che abbiamo ben più anni e più esperienza – ancora poco capiamo della nostra vita e del Mistero che ci abita? Silenzio, amici, silenzio! Un’anima tormentata non ha bisogno del parlamento o della prima pagina, ha bisogno di silenzio. Tanto più se il suo tormento si è chiuso in maniera così drammatica e vertiginosa.
Questo invito al silenzio mi dà modo di sottolineare la seconda cosa che vorrei condividere: ogni nostro ragazzo, a quattordici anni come a quindici, si trova addosso un inspiegabile disagio che sorge dall’incontro tra la propria storia di “bambino” e le sollecitazioni, migliaia di sollecitazioni, che la natura e la cultura circostante offrono alla vita, mostrandole un barlume di quello che uno sogna e pensa essere l’esistenza di un adulto. Quando questi due mondi si incontrano ognuno di noi, ve lo ricordate?, ognuno di noi avverte la propria vita come insufficiente, come troppo piccola per rispondere alla realtà e all’esistenza che avanza. Questo è il mondo incredibile dell’adolescenza.
Un mondo dove le risposte “mimano” quelle degli adulti, convinti che loro abbiano trovato la strada dell’esistenza. Il fumo, il sesso, l’alcol, ma anche il bullismo, la millanteria sessuale, lo sfrenato carrierismo scolastico, sono tutti nomi con i quali uno prova a chiudere e a inquadrare se stesso a quattordici come a diciassette anni. Ma il cuore è troppo grande e continuamente scoppia.
Così, passando da un letto all’altro, da una sigaretta ad uno spinello, da un certamen ciceroniano ad una serata in discoteca, la vita non aspetta altro che un amico che ci faccia vedere l’ampiezza, la profondità e la vertiginosità della nostra anima. E se quell’amico non arriva, se al suo posto c’è il branco, con i suoi stereotipi e i suoi riti, quello che rimane è un impietoso annichilimento in cui il pregiudizio e il sogno si intrecciano, in cui il dolore è visto come bambino e la fragilità è coperta da quelle forme della vita adulta che fanno diventare il “nocciolo duro del nostro Io” impenetrabile. Chi ha avuto la fortuna di incontrare una compagnia diversa, un’amicizia adulta, ha scoperto certamente dentro di sé una strada nuova, ma non ha potuto risparmiarsi la lotta eterna che ogni adolescente vive tra il proprio desiderio di vita e una realtà che, a questo desiderio, sembra solo offrire risposte di morte, di annegamento, di anestesia. Quei ragazzi, quel ragazzo, non hanno bisogno di un parlamento che legiferi perché non esistano le prese in giro grottesche e ignoranti dell’adolescenza, quei ragazzi, quel ragazzo, hanno solo bisogno di un adulto che, come Cristo, si chini sulla loro povertà e la inizia ad amare.
Per questo, ultima cosa che vorrei dire, nessuno può speculare su una morte del genere. I genitori di quel ragazzo oggi non hanno bisogno del parlamento, della legge sull’omofobia o del gay pride. I genitori di quel ragazzo oggi hanno bisogno della stessa cosa di cui aveva bisogno loro figlio: trovare gente che faccia loro compagnia di fronte al dramma del vivere senza la pretesa di scrivere al loro posto questa pagina della loro esistenza. Nessuno mai saprà che cosa ha provato questo nostro giovane amico nell’istante in cui ha lasciato andare la propria vita. Nessun pc potrà dircelo perché il Mistero del cuore non è fatto per essere svelato, ma solo per essere accolto, amato e – magari fra le lacrime – accudito.
Lo dico col cuore: non pensi, cara presidente Boldrini, di poter inventare illimitate leggi che impediscano ai ragazzi di avvertire tutto il disagio che hanno loro dentro; non pensi, caro presidente dell’arcigay, di poter risolvere con una legge o con un ceffone ben dato, il mare di ignoranza che gli adulti coltivano ogni giorno quando non insegnano ai loro figli che ogni persona è un santuario e che ogni santuario va rispettato e amato, senza pretendere di definirlo o di chiuderlo nella pochezza delle nostre rappresentazioni mentali.
Non pensate, cari amici, che per ogni morto che questa civiltà del nulla si porta sulla coscienza ci sia un lavabo purificatore cui rivolgersi per discolparsi e riprendere lo show della nostra vita. Niente di tutto questo esiste. Esiste solo l’esigenza e l’emergenza di essere adulti, persone che non barano sull’ampiezza del proprio bisogno e che non riducono le lacrime degli altri a occasioni perfette per promuovere se stessi e la pochezza della loro vita.