In Francia, un sondaggio del principale istituto di statistica, l’Ifop, rivela come il 78% dei francesi preferirebbe che nelle università le ragazze di confessione musulmana non portassero veli o foulard. Il sondaggio non è casuale, ma fa seguito a un rapporto redatto dalla Mission laicité dell’Alto Consiglio all’Integrazione che, alla fine di un’approfondita analisi della situazione attuale, suggerisce la promulgazione di una legge che proibisca “nelle sale dei corsi, nei luoghi e nelle situazioni di insegnamento e di ricerca degli uffici pubblici di insegnamento superiore, tutti i segni e gli abbigliamenti che manifestino in modo ostensivo una appartenenza religiosa”. In altri termini si tratta di estendere alle università quei divieti che sono già in atto nelle scuole di secondo grado.



La polemica divampa rapidamente e se da un lato i rappresentanti delle associazioni culturali islamiche vi vedono un attentato al diritto di espressione, gli autori del Rapporto redatto dalla Missione Osservatorio della Laicità vi vedono invece la risposta adeguata ad una pericolosa avanzata delle “rivendicazioni identitarie e comunitariste”, segnalata da azioni di proselitismo, contestazioni al contenuto di alcuni insegnamenti, fino al rifiuto delle opere di alcuni autori. In causa vi sono ovviamente non solo la religione islamica, ma le espressioni religiose di qualsiasi tipo che, in diversi modi, contestano le tradizioni intellettuali laiche dentro gli atenei.



Una tale situazione paga certamente il prezzo di una tensione oggettiva esistente sul piano culturale. Da almeno trent’anni la percezione di un islam che mette sotto accusa l’occidente genericamente inteso – ma culturalmente identificato nell’universo geopolitico americano e nella tradizione europea che ne costituisce la radice – spaventa l’opinione pubblica occidentale. In un tale contesto l’adozione di simboli identitari islamici viene sempre meno riconosciuta come una semplice espressione di appartenenza culturale e religiosa, per essere invece percepita come una vera e propria forma di ostentazione da parte di una specifica fazione culturale-religiosa che delegittima e aggredisce quello stesso universo culturale nel quale risiede.



Tuttavia, occorre convenire, una tale situazione non è affatto nuova. L’adozione di simboli e di abbigliamenti identitari ha per lungo tempo caratterizzato il folklore studentesco in molti atenei europei. La proliferazione di kefiah, berretti baschi con stella al centro, passando per il taglio particolare dei capelli, il colore e la foggia dei vestiti, per non parlare dei contrassegni dei partiti dietro gli emblemi di area culturale, hanno reso possibile, lungo decenni di triste memoria, l’identificazione dei diversi gruppi di espressione politico-culturale, distinguendoli vistosamente dalla popolazione universitaria ordinaria e rendendo così possibile la guerra per bande che sarebbe stata semplicemente ridicola se non fosse stata in realtà eminentemente tragica.

Il salto di qualità è rappresentato, in questo caso, dall’adozione di simbologie religiose e quindi dalla potenza dell’universo di riferimento. La possibilità di veder sviluppare nell’università fazioni religiose – si pensi al potenziale conflitto tra islamici da un lato ed ebrei dall’altro, o tra diverse fazioni islamiche – non può non preoccupare e creare forti perplessità verso un’attitudine di ridimensionamento e di sostanziale indifferenza.

Restano tuttavia due forti perplessità che suggeriscono una via diversa. La prima va recuperata proprio su scala temporale. L’adozione di provvedimenti contro l’ostentazione di simboli religiosi non ha affatto diminuito il problema centrale dal quale aveva avuto origine. Oggi più che mai le banlieues islamiche in Francia sono delle vere e proprie polveriere, mentre si assiste in contemporanea all’espansione di una laicità che ha ampiamente dismesso le vesti di garante e custode della garanzia dei diritti, per farsi invece araldo di una vera e propria rivoluzione antropologica, fino a dare vita ad una vera e propria religione laica, come ha auspicato non molto tempo fa il ministro dell’educazione nazionale Vincent Peillon in una sconcertante intervista rilasciata ad un canale televisivo. La seconda va invece letta su scala politico-culturale. Le università non sono scuole come le altre, come ha opportunamente segnalato il ministro dell’educazione e della ricerca Geneviève Fioraso, ma accolgono studenti maggiorenni.

Entrare nelle rispettive appartenenze identitarie e cultural-religiose per alimentare un crescente confronto e fornire strumenti sempre più qualificati per un efficace dibattito culturale costituisce un’occasione unica per fare degli atenei il luogo nel quale il dialogo viene efficacemente ripreso. Si tratterebbe così di andare nelle direzione opposta: anziché porre il silenzio sulle differenze e realizzare un conformismo normativo e d’abbigliamento, si può cogliere invece l’occasione per alimentare un’analisi ragionata ed approfondita proprio su queste stesse differenze, dove il vero obiettivo è conoscere l’altro anziché delegittimarlo.

Ciò significa recuperare l’università come luogo nobile del confronto e del dialogo; luogo maestro dove la ragione e in particolare le ragioni degli altri non hanno bisogno di essere urlate quando possono invece essere correttamente tematizzate. Alimentare il confronto culturalmente qualificato, fino a farlo diventare un punto cruciale della politica di ogni ateneo costituirebbe un valore aggiunto di portata inestimabile in un momento di conflitto crescente e, almeno in apparenza, inarrestabile.