Uno studio dell’università di Rochester (New York, Usa), pubblicato sulla prestigiosissima rivista accademica Personality and Social Psychology Review, ha rielaborato ben 63 studi precedenti, condotti in occidente a partire dal 1921, ed è giunto ad una certa e incontrovertibile convinzione: le persone atee sono più intelligenti delle persone credenti.



Il dato è lì, sotto gli occhi di tutti, e poco importa tirare fuori l’anima di difensore della fede che c’è in ogni credente: i dati sono dati.

La cosa, a dire il vero, non mi sembra affatto preoccupante. E non solo perché, smontando in due secondi la sensazionale scoperta, potremmo chiedere di che tipo di intelligenza stiamo parlando e di che tipo di credenti stiamo discutendo, ma anche e soprattutto perché siamo certi che questo tipo di ricerche non viene pubblicato senza interessi, senza rabbia, senza intenzioni, senza ideologia. 



Il professor Miron Zuckerman, responsabile dello staff che ha prodotto lo studio, probabilmente sapeva benissimo che – dinnanzi ad un simile risultato – sarebbero fioccati immediatamente le critiche, i contrasti e le barricate di chi, ancora oggi – nel 2013 – si definisce credente. Ogni ideologia, per essere completa e piena, ha bisogno di un nemico. L’errore che tanti cattolici fanno, oggi più che in passato, è quello di rispondere alle provocazioni e alle critiche non sincere con obiezioni meditate e fondate, ma totalmente inutili. Il punto è che la gente che pubblica questi risultati non aspetta altro che le nostre reazioni: hanno bisogno come il pane che noi controbattiamo per continuare a vivere (e a vendere). Se Dio esista o no, a questi signori, poco importa. A loro importa che esista qualcuno che ci creda e che si arrabbi ogni qual volta si pubblica una notizia o si fa una proposta che si mostra in tendenza opposta ad un certo credo o ad una certa morale. Quello di cui necessitano è di un nemico da alimentare per poter continuare a esistere come blocco culturale, sociale e politico. 



L’unico collante di una società come la nostra, svanito il sogno dell’unità delle nazioni, è lo sforzo contro il nemico, è l’avversione contro un’idea o un mondo che – idealmente – rappresenta tutto quello che ancora deve essere abbattuto per raggiungere la libertà e la pace. Noi cristiani, per i signori della scienza, siamo un po’ questo: si nascondono dietro a noi per non vedere il limite della loro ideologia, per non capire che il problema della vita non è quante molecole ha mia moglie, ma come faccio ad amarla per sempre. 

Per questo tendo a mostrarmi tiepido nelle grandi lotte e nelle grandi battaglie: primo perché sono figlio di un Dio che ha combattuto la sua battaglia nel Getsemani, lontano dalle telecamere di Sky, secondo perché la mia battaglia tiene in piedi proprio coloro che voglio combattere. Dopo l’attentato alle Torri Gemelle Giovanni Paolo II scrisse a George W. Bush che l’unica via d’uscita a quella spirale d’odio sarebbe stata il perdono e non lesinò critiche, allo stremo delle sue forze, quando il simpatico Jankee americano si apprestò ad invadere l’Iraq nella primavera del 2003. Giovanni Paolo II non era un buonista − aveva ben due regimi alle spalle, quello nazista e quello sovietico −; egli sapeva, però, che solo il perdono apre la strada alla giustizia e alla pace perché solo il perdono mette a nudo le contraddizioni e i limiti di chi ci sta di fronte. 

Detto questo, a me fa piacere che il signor Zuckerman pensi che io e i miei amici credenti siamo dei cretini con diritto di parola. Egli probabilmente pensa che noi crediamo per motivi profondi, legati al nostro substrato psicologico e personale, e sicuramente rispetta il nostro “credo”, facendoci semplicemente presente che la nostra fede ci rende meno “intelligenti” perché non ci consente di buttarci a “capofitto” nelle cose, ma ci chiede un istante di silenzio ogni volta che la realtà ci si fa prossima. È in quell’istante, l’istante in cui si decide il dominio sulla realtà, che probabilmente gli altri ci battono. 

Così, mentre gli altri smontano le cose, le persone, i sentimenti, le relazioni, noi in quell’istante abbiamo semplicemente imparato “di chi sono” le cose, le persone, i sentimenti e le relazioni e abbiamo capito che quei doni − perché di questo si tratta − vanno rispettati e non manipolati, vanno incontrati per costruire il bene della vita, non per sfruttarli a nostro piacimento finché di essi non ne rimangano nemmeno le briciole. Noi cretini, caro signor Zuckerman, abbiamo questo vizio tremendo di voler riconsegnare integro tutto quello che ci è stato donato, di non considerarci superiori agli altri solo perché la vita ci ha regalato qualche scoperta di troppo e, soprattutto, di aver chiaro il fatto che potremmo possedere il mondo intero, ma niente aggiungerebbe un’ora sola alla nostra vita. 

Ci hanno provato in tanti a convincerci che su questa strada non saremmo andati lontano: Epicuro, Plotino, Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud… ma nessuno ci ha mai fatto desistere. Sa perché? Perché come lei si è voltato, pieno di stupore, a guardare il volto di sua moglie il primo giorno che l’ha vista da innamorato, come lei ha messo i suoi occhi in quelli dei suoi figli o della sua mamma nei momenti clou della vita, così noi Dio lo abbiamo incontrato. 

Certo… non era scomponibile in molecole o identificabile in un certo tipo di sostanza, probabilmente era anche complesso da fotografare o da portare al più vicino ospedale per farGli una radiografia… Ma le posso assicurare che c’era, le posso assicurare che c’è! 

Ne ho le stesse prove che suo figlio può vantare quando, cucinando per lui un bel hamburger, egli non si agita e non lo porta in laboratorio ad analizzare, timoroso che lei possa averlo avvelenato. Suo figlio si fida di quello che lei cucina, suo figlio ha fiducia in lei. Le dà credito perché ha negli occhi e nel cuore come lo ha cresciuto, come lo ha amato,  come non lo ha mai mollato in nessun istante della vita. E fa bene. Perché la vita non è fatta solo delle cose che si contano o che si possiedono, la vita è fatta soprattutto delle cose che si amano. E per vederle, quelle cose, non basta decidere o sapere. Bisogna essere intelligenti.