Oggi al Meeting di Rimini è il giorno di Aleksandr Filonenko, docente di filosofia nell’Università di Charkov, in Ucraina. In questa intervista a ilsussidiario.net, Filonenko anticipa alcuni dei contenuto del suo intervento. Il primo è sul tributo di sangue che il totalitarismo sovietico ha preteso dagli uomini. Il secondo riguarda il senso stesso del martirio: non perché il comunismo è miseramente fallito esso perde di significato. “Noi dobbiamo lasciarci toccare da queste figure di uomini che hanno vissuto una vita piena nonostante tutto. Al loro seguito, in loro compagnia anche noi possiamo vivere; dobbiamo essere loro discepoli, magari discepoli cattivi e deboli, ma comunque avere qualcuno da seguire”.



Al Meeting di Rimini, quest’anno, c’è una mostra dedicata ai nuovi martiri russi: viene da chiedersi a che pro, oggi, parlare di un martirio legato a fatti, come la rivoluzione russa, vecchi ormai di cent’anni e superati dalla storia.
Certo oggi la Russia ha voltato pagina, sono finite le persecuzioni e anche il regime che le aveva prodotte, ma ricordiamoci che c’è stata una guerra per decenni: la guerra dello Stato contro la società e la Chiesa. Ora la guerra è finita ma la psicologia che essa ha forgiato resta, ancora si continua a pensare in termini di scontro, di nemico, di attacco e difesa. In questo contesto la persona umana non interessa, diventa una semplice componente del sistema, ne garantisce la stabilità. Il martire invece è sommamente un “io pensante”, un protagonista, ci richiama alla “personalizzazione” in un momento, come quello attuale, di universale crisi dell’umano.



Il martire come un eroe solitario?
C’è un modo duplice di guardare il martirio. Se prendiamo la frase evangelica in cui si dice che le porte degli inferi “non prevarranno”, possiamo intenderla nel senso che le porte dell’inferno non riusciranno mai a sconfiggere la Chiesa, la quale resterà sempre integra e salva. Ma in questa lettura ci può essere molta ambiguità e un certo ingiustificato trionfalismo. Oppure si può capirla nel senso che le porte dell’inferno non attaccano la Chiesa ma si pongono come eterno limite alla redenzione, che di per sè è infinita e chiede di espandersi ovunque. Tuttavia il male è limitato mentre il bene è infinito, così è la forza della fede che proietta la sua luce anche sull’inferno e le porte di questo non ce la fanno a fermarla. Neppure le porte dell’inferno possono niente contro la fede.



Questo è il senso del martirio moderno?

Sì, il martirio ci offre la visione della potenza di Cristo: la sua luce irrompe anche oltre il male, il martire è questa luce nei tempi bui, a dimostrazione che la potenza di Cristo non viene meno neanche di fronte al male più efferato. La mostra sui martiri del Meeting di quest’anno lo mostra bene anche visivamente, troviamo tutt’attorno la descrizione storica dello sfacelo, del tradimento, delle violenze fisiche e spirituali, delle torture e dell’ingiustizia, ma dall’altra parte, girando le spalle a questo quadro disperante (e pensiamo a quanto c’è anche oggi di angoscioso, disperante, minaccioso) troviamo queste figure luminose. Luminose non perché sono morte ammazzate, ma perchè hanno vissuto in modo umanamente dignitoso, persino lieto e bello, in tempi impossibili. Queste fonti di luce nella notte nera sono ciò per cui vale la pena ricordare il dramma immane della rivoluzione russa. Se no resta solo la galleria degli orrori. Noi pensiamo sempre nelle categorie di nemico esterno che attacca la Chiesa, mentre è più utile pensare dal punto di vista della bellezza della vita nella fede, la Chiesa non ha bisogno di nemici per vivere questa vita.

Qual è stato il contributo del XX secolo nel chiarire queste realtà?
Il secolo XX ci ha offerto un’orgia di male inimmaginabile prima. Si è spalancata davanti a noi la scala che scende verso gli abissi del male, e qualsiasi cosa noi tentiamo o speriamo, questo male c’è e nessuno lo può togliere, anzi, c’è sempre un gradino ulteriore da scendere. Per fare delle leggi che lo combattano bisogna descrivere le forme che il male può prendere, ma queste forme si moltiplicano a dismisura, ce ne sarà sempre una nuova e ulteriore. Non c’è via d’uscita. Questo male è presente anche oggi, è la crisi radicale dell’umano ma non è questa la cosa essenziale. L’insicurezza e il senso di minaccia che esso genera sono ben concreti e giustificati, ma diventano umanamente sostenibili solo se si vede in atto la possibilità di vivere in modo umano anche in condizioni infernali. Noi dobbiamo lasciarci toccare da queste figure di uomini che hanno vissuto una vita piena nonostante tutto. Al loro seguito, in loro compagnia anche noi possiamo vivere; dobbiamo metterci al loro seguito, essere loro discepoli, magari discepoli cattivi e deboli, ma comunque avere qualcuno da seguire.

Ci sono delle figure e dei luoghi di vita simili oggi nella Chiesa?
Riguardo a questo tema così importante mi sono imposto un periodo di silenzio e di meditazione. È facile infatti puntare il dito e denunciare tutto quello che non va, ma la cosa principale è che ciascuno di noi si interroghi personalmente su cosa significa per lui il martire. Dobbiamo amarli e stimarli. Di solito la venerazione di un santo, o di un martire nasce dall’affezione che i credenti nutrono per lui, mentre da noi in Russia è avvenuto il contrario: abbiamo canonizzato i nuovi martiri ma non possiamo accontentarci di averli messi sugli altari, ora dobbiamo amarli, attaccarci a loro come a maestri di vita. Questo è il lavoro che ci aspetta.

Questo vale per il martirio in generale, in più il XX secolo cosa ci ha portato?

Il XX secolo ha portato molte novità assolute per la Chiesa perché ha segnato la fine dell’era costantiniana. La Chiesa russa ha dovuto imparare ex novo a rispondere alla sfida del presente storico, a creare nuovo rapporti col potere politico; inoltre ha rifondato il patriarcato, ha risposto col nuovo martirio alla nuova situazione. E ne vediamo i frutti: il patriarcato di Mosca ha canonizzato più santi negli ultimi vent’anni (1700) che in tutta la sua storia millenaria precedente. Noi facciamo spesso l’errore di considerare esclusivamente il martirio dei primi secoli, ma questo non rappresenta più un richiamo per rispondere ai problemi dell’oggi, troppo lontane e diverse le condizioni.

Secondo quanto ha detto, cosa c’entra la figura dello zar Nicola in tutto questo?
Naturalmente lo zar è una figura controversa per le sue evidenti debolezze umane, per le inadempienze, per le terribili responsabilità storiche in cui ha fallito. Ma va notato che nei suoi confronti la Chiesa ha agito con grande ponderazione, non ha voluto caninizzarlo per una scelta “politica” ma andare al fondo della sua prigionia e morte, e non a caso non gli è stato attribuito il titolo di martire ma un’altra forma di santità rara, antica e tipicamente russa: la santità di colui che non si sottrae alla violenza, ma la subisce con mitezza, come gli antichi principi Boris e Gleb che si lasciarono uccidere dal proprio fratello. Sappiamo da innumerevoli fonti storiche che anche lo zar, potendo fuggire, non volle farlo. Proprio questa sua figura così discutibile mette ancor più in evidenza che è Dio che dona il martirio e che è Sua la forza che permette di affrontarlo.

(Marta Dell’Asta)


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