Come è ormai tradizione, la settimana del Meeting di Rimini chiude il ciclo estivo e riapre la stagione sociale del lavoro e dell’impegno diuturno con la realtà. In Gran Bretagna la fine dell’estate, oltre che dai classici temporali estivi, è stata funestata anche da una notizia inquietante: un giovane tedesco di ventun’anni, stagista alla Bank of America, è stato trovato morto nella doccia di casa dopo aver fronteggiato più di ventuno ore continue di lavoro, dalle nove del mattino fino alle sei del giorno seguente. Il giovane soffriva di epilessia e può essere che, all’origine della morte, vi sia l’intrecciarsi di farmaci anti-epilettici ed eccitanti, come altre cause di tipo tossicologico non ancora del tutto chiare. Il fatto, però, ha aperto importanti domande sul lavoro e sui sacrifici che molti intraprendono per essere all’altezza delle richieste delle aziende alle quali prestano la loro opera.
In Italia, come in molti paesi dell’Occidente, da lunedì inizieranno a riaprire le scuole, gli uffici e i servizi pubblici, rimettendo il tema del lavoro al centro della nostra attenzione quotidiana. In un tempo di concreta crisi del mercato del lavoro, il sacrificio del singolo è all’ordine del giorno ed effettivamente molte aziende approfittano della situazione per chiedere sempre di più in termini di ore di lavoro e di impegno personale. I casi come quello londinese, anche se di minor impatto sulla vita della gente, non mancano di certo. Il fenomeno è così diffuso, e ricatta interi matrimoni e famiglie, che viene da chiedersi: ma vale veramente la pena lavorare in questo modo?
Il Sacrificio, umanamente parlando, si compie sempre per un bene superiore che si desidera per sé e per la propria vita. “Dare la propria vita”, infatti, è il gesto umano per eccellenza, in quanto solo l’uomo può prendere in mano la propria esistenza e consegnarla per qualcosa che ritiene utile, positivo e buono. Il fatto è che non sempre le cose per cui ci sacrifichiamo hanno questo valore. Spesso sono delle vere utopie, molte volte evidenziano legami affettivi parziali o, comunque, malati, qualche volta il bene per cui decidiamo di sacrificarci è proprio un male, un oggettivo disordine o un fattore ineludibilmente brutto e sbagliato. Ma allora si può ancora parlare di “sacrificio” oppure siamo di fronte ad avventatezze inutili e poco romantiche?
Entrambe queste domande, quella sul valore del sacrificio quando esso è in relazione ad un bene non oggettivamente buono e quella sull’opportunità del lavoro quando esso ci richiede ritmi e condizioni non umane di vita, meritano una risposta che potremmo sintetizzare in tre osservazioni, utili per tutti coloro che in questi giorni ritornano alla propria occupazione.
La prima osservazione è molto semplice: la vita è fatta per essere data. Ogni volta che un uomo dà la propria vita, qualunque ne sia il motivo, merita sempre il nostro rispetto perché − in quel darsi − quell’uomo sta bussando alla porta di Dio. Noi sentiamo di essere fatti per qualcosa di più grande di noi, qualcosa che va oltre le nostre mani e i nostri occhi, e il sacrificio esprime sempre questa consapevolezza. Esso, per qualunque motivo sia fatto, mostra al mondo il nostro valore, che non è lontanamente paragonabile a nessun’altra creatura del regno vegetale o animale, perché l’obiettivo dell’uomo non è la semplice auto-conservazione, e neppure l’importantissima riproduzione della specie, ma l’obiettivo dell’uomo è il dono. Finché io non sento la mia vita spesa per qualcosa, data per uno scopo, non mi sento vivo. È il darmi che mi rende vivo perché, nel “consegnarmi”, ritrovo quella stessa energia che è propria di Dio. In questo è realmente evidente che l’uomo è una creatura fatta ad immagine e somiglianza del Suo Creatore il quale, della comunicazione di sé, ha fatto il tratto distintivo della propria essenza.
La seconda osservazione è una diretta conseguenza della prima: l’uomo si dà attraverso il proprio lavoro. Il lavoro, prima che essere un dato sociale o economico, è un dato fisico. La formula fisica del lavoro è FxS (forza moltiplicato spostamento), ossia l’energia impiegata nel lavoro moltiplicato ciò che nella realtà si è realmente riusciti a spostare, a muovere. Il lavoro dell’uomo, dunque, è uno spostamento della realtà amplificato dalla propria energia, dalla propria passione, dalle proprie domande. Lavorare non è appena “fare o produrre delle cose”, lavorare è impiegare in quello che si fa tutta la nostra umanità. In questo modo accade un fatto singolare: la nostra umanità, che poi non sono altro che le nostre domande, i nostri bisogni ultimi, è resa profonda da quello che muove e quello che muoviamo acquista valore per quello che noi “ci giochiamo” del nostro Io e delle sue esigenze. Per questo il lavoro è fondamentale e restituisce dignità alla vita dell’uomo: perché consente all’esistenza di muoversi, di non rimanere al palo dei propri piccoli problemi, ma di riprendere con forza il viaggio della vita. Sei innamorato e non sai come vivere questa situazione? Lavora con questa domanda. Stai soffrendo come un cane per un particolare dell’esistenza? Lavora portando il tuo bisogno dentro quello che fai e apri gli occhi: lì avverrà l’epifania della risposta, lì − dentro il tuo lavoro − Dio dialogherà con te.
La terza osservazione è quasi una conclusione scontata: perché accada il miracolo del lavoro − o dello studio − vissuto a questo livello di tensione umana, occorre che ci siano le condizioni minime di vivibilità. Per questa domanda che ho nel cuore, per questa passione che mi fa essere uomo, io posso anche fare tutti i giorni gli straordinari, io posso anche saltare giù dal letto alle due di notte, io posso anche fare un giorno intero senza dormire, ma questo deve avvenire dentro ad un rapporto. Le condizioni minime del lavoro non sono quelle dettate dalle norme sindacali, ma quelle imposte dal cuore dell’uomo: solo dentro ad un rapporto io posso fare l’esperienza del “dono di me”.
Per questo la consapevolezza minima di un lavoratore, come di uno studente (perché tutto quello che abbiamo detto − tutto − ben si adatta anche allo studio) non può mai essere, anzitutto, quella di essere un salariato, e neppure quella di avere un futuro assicurato, o di fare qualcosa di grande, nobile o prestigioso. La consapevolezza minima di un lavoratore o di uno studente, per essere tale e poter − dentro quella condizione − sperimentare la grandezza e la profondità della vita, deve essere quella di “essere amato”. Per questo il cristianesimo sarà sempre la forza più civilizzatrice della storia: perché consegna all’uomo, a qualunque uomo, un nome nuovo, il nome “Amato”.
Forse è questo che manca agli stagisti di Londra, forse è proprio questo che dobbiamo chiedere − come coscienza di noi stessi − all’inizio di questo nuovo, splendido, anno di lavoro e di studio. E non è poco.