Pubblichiamo la lettera di un detenuto ergastolano che partecipa per la prima volta, assieme ad altri compagni, al Meeting di Rimini. Gianni, questo il suo nome, scrive a nome di tanti detenuti e leggerù il suo appello oggi, alla presenza del ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri.

Buongiorno,

Mi chiamo Gianni e sono un ergastolano detenuto nel carcere di Padova, dove lavoro presso la cooperativa sociale Giotto che ringrazio non solo per avermi portato qui tra voi, ma anche e soprattutto per avermi dato l’opportunità di parlare della nostra condizione in un convegno importante come questo dove di solito si affrontano tematiche politiche e imprenditoriali legate al mondo del lavoro e dove si tracciano le linee guida non solo etiche ma anche economico-sociali del nostro paese. Cioè l’esatto contrario della realtà dalla quale provengo che, a causa di concezioni arcaiche ancora in voga negli istituti di pena italiani, è solo luogo di dissipazione di denaro pubblico per mantenere in carcere uomini che usano l’ozio, il far niente, unicamente per ideare nuovi e spesso più efferati crimini, incrementando in tal modo la recidiva.



Dunque oggi approfitto della rara occasione che ha un detenuto di parlare del sistema penale dinanzi al ministro della Giustizia, ma soprattutto davanti a una platea che da sempre ha fatto dei diritti e dei bisogni degli ultimi la propria bandiera. E’ dunque a tutti voi che rivolgo l’invito a nome di tutti i detenuti di fare il possibile per restituire fiducia e dignità a uomini e donne che oggi espiano la loro pena in condizioni disumane. Noi crediamo che un passaggio fondamentale sia costituito dal rafforzamento del lavoro e dell’istruzione, che sono a nostro avviso elementi essenziali a ridare dignità e libertà di spirito a un uomo. Nella mia lunga esperienza detentiva ho sentito spesso tanti compagni, soprattutto alla prima esperienza in carcere, pronunciare frasi del tipo: «Ah, se mi dessero una possibilità, non tornerei più in questo posto!».



E’ proprio in questo momento che le istituzioni devono essere presenti, non quando un uomo pieno di rabbia e rancore è giunto ai bordi del suo fine pena ed è convinto di non dovere niente a nessuno avendo pagato secondo lui il proprio debito con la società e quindi di non dovergli più nulla, non avendo minimamente rielaborato i passaggi della propria vita che lo hanno condotto a porsi al di fuori della società. A chi serve un carcere strutturato in questo modo? Non certo a rendere una società più sicura né tantomeno a renderci uomini migliori.

È a nostro modesto avviso un sistema malato che non funge né da prevenzione né tantomeno da rieducazione come previsto dalla nostra Carta costituzionale. E’ questo il messaggio che i miei compagni mi hanno pregato di portare, io che sono uno dei pochi privilegiati ad avere un lavoro che mi ha reso libero pur essendo ristretto fra quattro mura.



La cooperativa Giotto nel carcere di Padova, non produce solo ottimi dolci, cibi, e utensili vari, ma soprattutto uomini migliori, lavorando fianco a fianco con noi, dandoci fiducia, insegnandoci cos’è la responsabilità, in una parola, trattandoci da uomini. Questa è a nostro avviso la strada da percorrere per ridare un minimo di senso al carcere e quindi vi prego umilmente di provare a darci fiducia e a credere su chi tanto ha sbagliato, ma ha anche tanta voglia di ricominciare.

E mi rivolgo a voi, cari amici, che siete la parte più sensibile della società, perché non è e non può essere solo un problema istituzionale, ma un problema sociale che coinvolge tutti, poiché è da come sono trattati gli ultimi e i reietti che si comprende il grado di civiltà di una società. Non vogliamo sconti per i nostri errori, ma solo la possibilità di essere trattati come uomini.

(Gianni) 

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