Questa non è una notizia. Più che altro appartiene alla categoria del “si fa, ma non si dice”. Un po’ come quando a 34 anni, con laurea e fior di master alle spalle, sei ancora costretto a fare stage non retribuiti, sapendo benissimo che non c’è nessuna prospettiva per te. Ma guai a lamentartene: l’illusione svanirebbe in un puff, come un incantesimo. Un po’ come quando, e infatti di questo si tratta, rimani incinta e i tuoi colleghi e colleghe, esibendoti compiaciuti sorrisini di circostanza, alla faccia anche della solidarietà di genere, in cuor loro, hanno già tracciato una croce sul tuo ruolo sociale e sulla tua carriera. 



Mal comune, mezzo gaudio: succede nella mordenissima Londra, tanto che il Guardian recentemente s’è sentito in dovere di ospitare il commento di una neo mamma che ha avuto il piacere di sperimerare sulla propria pelle quanto un figlio ti cambi la vita… anche al lavoro. Anne Richardson, dopo aver letto la recente ricerca dello studio legale Slater and Gordon secondo cui almeno il 35 per cento delle 1.975 puerpere intervistate hanno avuto problemi sul luogo di lavoro in seguito alla nascita del primo figlio, s’è presa la briga di chiedere conferma alle sue otto compagne del corso di preparazione al parto. Scoprendo l’acqua calda: a due anni dalla nascita del primo figlio, solo metà di loro lavorava ancora. E certo non perché le altre avessero deciso di anteporre la famiglia alla carriera: c’era chi aveva colto la malparata già all’annuncio della gravidanza, chi, al rientro, era stata messa in condizione di non nuocere e chi era stata addirittura licenziata in tronco. 



Così anche il Guardian ha scoperto che, sul lavoro, le donne incinte e le neo mamme sono perseguitate. E Ros Bragg di Maternity Action, una onlus a sostegno della maternità, afferma di ricevere 15 volte più chiamate di quelle a cui riesce a dare risposta: “Abbiamo un sacco di richieste da parte di donne che tornano al lavoro dopo la maternità – dice – e trovano le cose cambiate in modo da non riuscire a conciliare la maternità con il lavoro. Sono sempre le donne quelle in esubero ed è un preconcetto difficile da combattere”.

Così nella perfida (sic!) Albione. In Italia, invece, non solo è vietato licenziare le donne durante la gravidanza e fino al primo anno di vita del bambino, ma perfino accettarne le dimissioni durante questo periodo comporta un complesso iter burocratico volto a garantire che non ci siano forzature nella scelta della donna. In teoria. Perché nella pratica ci sono molti modi per spennare un pollo… con la collaborazione del pollaio tutto, che volentieri si presta a denigrare, isolare, ostacolare, mobbizzare la neomamma, in modo da indurla a togliersi dalle scatole. 



Perché in Italia, in tutti i luoghi di lavoro, nessuno escluso, aleggia una leggenda popolare secondo cui le donne gravide – e con loro le neomamme – costano il doppio e non valgono più niente. Poco importa che la scelta di mettere al mondo un bimbo sia l’unico vero motore di una società. Poco importa che senza bimbi il futuro cesserebbe semplicemente di esistere. Quel che conta è l’adesso, e soprattutto il pericolo è che per la neomamma cambino le priorità: nulla è (o dovrebbe essere) più importante del proprio figlio. Ma quel che si vuole è che la cosa più importante sia il lavoro.

Così le mamme sono quelle che hanno tradito l’azienda, e con essa i propri colleghi. Anche economicamente: allo stipendio che, sempre secondo la credenza popolare, le puerpere continuerebbero a percepire, va sommato quello da corrispondere alle loro sostitute. In realtà non c’è nessuno stipendio da erogare alle donne in congedo parentale, che semmai percepiscono quella che più propriamente si definisce “indennità di maternità” e che corrisponde solo a una frazione dello stipendio, a carico dell’ente previdenziale (generalmente l’Inps) di categoria, e non dell’azienda. Che alle sostitute paga lo stipendio, ma non i contributi. Questa è la verità. 

Ma nella realtà, secondo la logica odierna, le più grandi nemiche delle donne sono le donne stesse che, nella logica tutta femminile del “sono il lavoro che faccio”, per non dire “sono l’azienda in cui lavoro”, accolgono l’annuncio della gravidanza delle colleghe con una smorfia di disappunto. Che sia per per invidia perché chi storce il naso a sua volta ha dovuto rinunciare alla maternità o perché potrebbe aumentare il carico di lavoro su chi rimane in azienda, non è dato sapere. Probabilmente, però, si tratta di entrambe le cose. In ogni caso, per differenziarsi rispetto alle mamme, spesso sono proprio le nullipare le più accanite.

C’è da dire che vittime e carnefici soffrono della stessa patologia: la difficoltà di avere un ruolo sociale. Perché quando le donne facevano le donne, e basta, magari la vita era dura da sopportare, ma al giorno d’oggi, in cui alle donne, oltre a fare le donne, tocca fare anche gli uomini, tutto è più difficile. Basti pensare che prima di decidersi a fare un figlio, ormai si aspetta almeno fino ai 35 anni. E siamo certi che ad abbassare la media dell’età siano le donne straniere, delle quali Milano non difetta. Com’è possibile che le italiane partoriscano così tardi? 

Semplice: le nostre mamme ci hanno allevate all’insegno di un credo che ormai ha del dogmatico, quello dell’indipendenza. Che non è detto che si riesca davvero a raggiungere, con i chiari di luna che ci sono. Quindi o si riesce ad avere l’indipendenza economica, ma ci vuole un po’ di tempo e dunque si figlia tardi, o ci si arrende, e a un certo punto si figlia lo stesso, ma tardi. Oppure non si figlia affatto, e sono guai per le colleghe.