“Chi me lo ha fatto fare di vivere in questo mondo di cani rognosi. Sì, lo dico: sono pentito di essermi pentito”. Così Carmine Schiavone, ex capo killer e super-ragioniere del gotha dei Casalesi, in un’intervista concessa a Sky Tg24. Il resto dell’intervista va presa con le pinze, come tutte le dichiarazioni di collaboranti e pentiti e spetta alla magistratura – più che a noi – commentare e trarre le dovute conseguenze.



Noi cittadini, che da piccoli pensavamo che i processi in Italia si facessero come quelli di Perry Mason, e che poi da grandi abbiamo ritenuto che si facessero come quelli rappresentati nelle fiction televisive, possiamo legittimamente domandarci: perché ci si può pentire di essersi pentiti?

Non bisogna essere un camorrista o un mafioso per fare questa esperienza.



Si comincia tra i banchi di scuola quando il professore chiede alla classe: “chi ha tirato il gessetto al compagno quando io ero girato dall’altra parte”? E se uno tra i tanti decide di rompere il muro della solidarietà (che da quel giorno imparerà a sue spese che invece si chiama “omertà”) e accusa il compagno, dopo meno di un minuto dovrà saper rispondere a due terribili domande: “E’ stato giusto quello che ho fatto”? E poi: “Ne è valsa la pena”?

Da quando ci è accaduto quell’avvenimento tutti abbiamo cominciato a fare i conti con la giustizia, non con quella delle aule dei tribunali, fortunatamente, ma con quella del vivere quotidiano, quella che anche se siamo ancora all’asilo ci fa rivoltare lo stomaco se un compagnetto o una compagnetta è amata dalla maestra più di noi stessi.



Alla prima domanda si impara a rispondere con più naturalezza soprattutto quando si vive in un contesto di legalità e di conseguenza si identifica il concetto di giustizia con quello che viene condiviso dal gruppo sociale cui si appartiene.

Un giorno padre Pino Puglisi dovette registrare il rifiuto di un ragazzino di Brancaccio a fare la prima comunione, il quale per tutto l’anno aveva frequentato proficuamente il corso di catechismo. Quando lo interrogò si sentì rispondere che non poteva impegnarsi a compiere quel gesto perché altrimenti avrebbe dovuto smettere di rubare, la qual cosa non era possibile, stante la richiesta quotidiana che gli veniva dalla famiglia.

Ed ecco inesorabile la seconda domanda: che vantaggio si trae dal denunciare il male? Ne vale la pena? E se le conseguenze sono peggiori del male?

Questa è la vera e inesorabile domanda che ancora oggi tantissimi commercianti si pongono dinnanzi alla prima richiesta di estorsione che ricevono, poco cambia se abitino in Trentino o in Sicilia. In queste circostanze lo Stato e le associazioni antiracket contribuiscono concretamente ad accompagnare nella difficile esperienza i tanti che si sono ribellati al pizzo. Ma tutto ciò spesso non basta e la domanda resta.

Tutte le organizzazioni criminali hanno un “codice deontologico interno” che prevede regole, divieti e premialità che gli affiliati devono accettare incondizionatamente. Chi, stando con la criminalità le viola, per passare dalla parte della giustizia chiede immediatamente e legittimamente la giusta tutela per la vita sua e dei suoi cari, altrimenti l’apparente vantaggio si trasformerebbe in terribile danno.

Ma perché Carmine Schiavone afferma e documenta nell’intervista che non ne è valsa la pena? Fondamentalmente perché la sua idea e il suo concetto di giustizia non sono coincise con la realtà che oggi dopo tanti anni è costretto a vivere. Ha dovuto ammettere − come tutti noi − che un conto è l’idea di giustizia, un conto è la giustizia così come viene amministrata. Ciò vale per i giudici di tutte le epoche che per raggiungere il proprio ideale di giustizia devono fare i conti con le norme esistenti in quel momento, le quali forse non sempre riescono a cogliere perfettamente lo scopo che si prefiggono.

Può venirci in aiuto una dichiarazione, indubbiamente troppo spontanea e istintiva, fatta l’altro ieri dal ministro Alfano al Meeting di Rimini, quando con un passaggio “ardito” ha voluto in qualche modo assimilare le vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi a quelle della più famosa vittima della giustizia umana ricordata dalla storia: Gesù Cristo. Anche in quella circostanza ci fu uno scontro durissimo tra una misura di giustizia umana, fondata su leggi e codici, e una misura di giustizia, che possiamo definire “divina”.

A Cristo fu offerta la possibilità di inserirsi e modificare la logica di quella umana facendo scendere le sue legioni di angeli, ma rifiutandosi cambiò il corso della storia di tutti gli uomini e per sempre: introdusse così una misura di giustizia che, non essendo “fatta da mani d’uomo”, può valicare la storia e i secoli conservando immutata la sua efficacia fino ad oggi.

Non intendiamo suggerire nulla a Silvio Berlusconi, ma a Carmine Schiavone e con lui a tutti noi forse sì: gli ideali e il tornaconto personale sono una dimensione della vita con cui è giusto fare i conti, soprattutto quando ci sono di mezzo gli affetti dei familiari e degli amici. Ma la vita chiede anche gesti di “generosità” che non possono essere giudicati solo con questi criteri.

Chi si getta in mare per salvare una vita umana forse si chiede prima se gli daranno una medaglia o un’intervista?

E chi è stato ucciso dalla mafia senza che lo abbia voluto o desiderato pensava in quel momento: certo avrei preferito vivere, almeno però a uno dei miei figli sarà garantito un posto nella pubblica amministrazione?

Fortunatamente Dio ci ha fatto meglio di come talvolta noi stessi ci conosciamo ed è capace di trarre il bene anche da quello che noi riteniamo inutile e dannoso.

Il Vangelo ci ricorda che bisogna sforzarsi di entrare per la porta stretta, “perché molti cercheranno di entrare e non ci riusciranno”. Può accadere che per entrare per la porta stretta occorra lasciare fuori un po’ di bagaglio a mano, come capita nei voli low cost, quando pur di risparmiare qualche euro riusciamo a viaggiare con meno oggetti al seguito, imparando − contro voglia − una essenzialità del vivere che può tornare utile nei casi di necessità.

Identificare la nostra misura di giustizia con la Giustizia può essere faticoso, doloroso e provocarci del male, soprattutto se abbiamo avuto la fortuna di incontrarne Una che ha attraversato intatta duemila anni di storia dimostrandosi in grado di rispondere al bisogno di giustizia che abita nel cuore di ogni uomo.

Ma accontentarsi di meno vuol dire far prevalere la mia misura su quella dell’altro, il mio criterio su quello del mio collega.

Insomma anche la giustizia costa e non si può pensare di raggiungerla solo sulla base dei pur legittimi personali convincimenti. Sia che siamo camorristi, sia che siamo giudici, sia che siamo anonimi cittadini.