Sì, è giusto tenere in vita una donna per salvare il bambino che porta in grembo. È giusto contro ogni speranza tentare l’impossibile, affidandosi alle macchine, di qualsiasi tipo, perché quella vita palpitante viva. Non può esserci esitazione, dubbio, non c’è riflessione filosofica, psicologica, medica che si insinui e ci induca ad esitare.
Carolina Sepe è clinicamente morta. Morta, per errore, mentre un assassino uccideva il padre. Morta, inconsapevole e innocente, col suo dolce fardello. Tre vite, per una sola follia, armata. Scatenata da un litigio. Tre vite. Forse due. Il bimbo che Carolina porta con sé è solo alla decima settimana di gestazione. Dieci settimane, ovvero un fagiolo, per dimensioni, con la testa più grande del corpo, per quanto il cervello è cresciuto, ma con il nasino, gli occhi, le gemme dei denti, le dita delle mani e dei piedi, già separate, già capaci di muoversi. Il suo sistema nervoso funziona, il cuore batte, batte forte, lo si può sentire anche poggiando l’orecchio sulla pancia, e il monitoraggio fa sussultare. Batte con una determinazione, un’energia, eppure è così fragile. Vive per il respiro, il sangue, la vita di sua madre.
Quanto può andare avanti, immobile e incosciente in quel letto dell’ospedale Cardarelli di Napoli? Che genialità, che scienza può dare almeno dieci, dodici settimane di vita ancora a quel bambino? È quel che gli manca per poter sopravvivere, per essere affidato alle cure di un’incubatrice, per uscire al mondo. È terribile pensare a quel palpito, e sapere che potrebbe spegnersi, da un momento all’altro. È grandioso che la mente, le braccia dell’uomo possano dedicarsi a farlo battere ancora, contro ogni limite, contro il tempo, la logica e la “natura”.
La natura. Quante volte evocata come matrigna. Quante volte come madre, che se decide, decide per il bene. Non è così. La natura ci è affidata, può e deve essere guidata, per la vita, sempre. Quante volte, nei dibattiti laceranti sulla povera Eluana, si è parlato di natura, di libertà, di scelta. Ora, Carolina non può scegliere. Carolina dovrebbe essere lasciata andare. Dovrebbe poter raggiungere il suo papà e stringersi a lui, perché non può più essere salvata. Ma Carolina vorrebbe, griderebbe, se lo potesse, di essere intubata, legata ai fili di decine di macchine per la speranza di dare alla luce quel bambino. Anche perché egli viva un solo giorno in più. Perché vivendo lui, vive lei, e non solo. Perché la sua vita vale di per sé, il suo cuore batte da solo, chiede di continuare a pulsare, di far vivere quella madre che lo contiene, lo protegge, lo nutre ancora.
È un’emozione indicibile immaginare la lotta che avviene in quella stanza di terapia intensiva del Cardarelli. Una lotta tra morte e vita, che in duello si combattono, guardandosi l’un l’altra in viso. Conflixere mirando. Comunque sia, quello che lotta non è un embrione. Chiamatelo come volete, è un bambino. Ogni attimo afferma il suo sì alla vita, ogni attimo in più ha un senso, e una benedizione. Chi crede chiede il miracolo. Impossibile agli uomini, forse a Dio. Chi non crede, o non vedrà le sue preghiere esaudite, può, forse deve rimanere commosso e incantato davanti al mistero di quel corpo inerte che sta dando tutto, proprio tutto di sé per essere madre.