L’annuncio di Joerg Asmussen, membro del board della Banca centrale europea, sulla necessità di incrementare il numero di donne ai vertici dell’istituto di Francoforte, segna uno spartiacque: invece che limitarsi a manifestare l’intenzione di includere presenze femminili in misura crescente nel Direttorio – oggi completamente al maschile -, allarga il proposito anche al middle management, e in generale al personale in servizio.
La novità, dunque, non sta tanto nell’astratto adeguamento alle percentuali previste dalle più recenti normative sulle “quote rosa”, ma nella consapevolezza finalmente dichiarata dell’importanza della partecipazione femminile al livello intermedio, oltre che a quello alto. Non che l’apertura del consiglio direttivo alle donne vada sottovalutata: soprattutto tenendo conto che la vicina Bundesbank ha rilasciato nel marzo 2012 un report che, sulla scorta di dati quanto meno discutibili, attribuiva la responsabilità della crisi delle banche tedesche all’apertura dei loro board alle donne, che avrebbero meno esperienza e sarebbero quindi più inclini a prendere rischi. A parte simili pretestuosi tentativi di osteggiare la penetrazione femminile nei cda bancari, la vera battaglia si combatte altrove: ne è consapevole la Bce, il cui obiettivo sarebbe quello di raggiungere una percentuale del 35% dei manager donne, doppio rispetto all’attuale 17%.
Una consapevolezza che sembra ancora da maturare nella realtà italiana, che pure prevede ormai per legge la necessità di raggiungere il 30% di donne in tutti i cda delle società quotate in borsa, comprese le banche (in cui nel 2010 erano ferme al 7%). In un convegno organizzato dall’Abi il 25 e 26 settembre del 2012 emergeva che al 31dicembre 2011, le lavoratrici bancarie rappresentavano oltre il 43% dell’occupazione complessiva, con più della metà dei neo assunti di sesso femminile (e previsioni di raggiungere la parità di presenza con gli uomini tra il 2015 e il 2017). Ma su questa popolazione, solo il 27,5% erano quadri, e solo lo 0,5% ricopriva posizioni dirigenziali. Certo, si tratta di un progresso rispetto al passato (nel 1997 le dirigenti donne sulle occupate erano solo lo 0,06%, e i quadri solo l’11%). In termini assoluti, prendendo i dati di un campione nazionale come Intesa Sanpaolo, la percentuale di donne dirigenti sul totale del personale in Italia si riduce allo 0,2% (contro l’1,4% maschile), e quella delle donne quadro al 16,6% (contro il 25,5% maschile). Percentuali ben lontane dall’unica lasciata comunemente trapelare, quella della componente femminile sul totale dipendenti, che è in costante ascesa (per Intesa Sanpaolo, tornando all’esempio, si attesta al 43,6%).
L’impressione, stando anche alle dichiarazioni dei dirigenti Abi al convegno dello scorso anno, è che ci si sia limitati ad assumere le donne all’inizio della carriera − peraltro approfittando delle agevolazioni, soprattutto nelle aree svantaggiate – senza finora impegnarsi attivamente nella loro crescita professionale. Il risultato è la perpetuazione di un esercito di volenterose impiegate, che nella loro marcia continuano ad incontrare davanti a sé il consueto “soffitto di cristallo”, senza cambiare realmente le prassi organizzative e lavorative modellate su un contesto tradizionalmente, solidamente maschile.
Più ancora che l’entrata nei consigli di amministrazione, è la partecipazione alla gestione quotidiana, tanto strategica quanto operativa, a poter apportare questo cambiamento: con la speranza che la mossa di Francoforte dia finalmente il buon esempio.