E’ passato Francesco, come un vero uragano, è il clima è cambiato. Un grande evento ha di solito la capacità di allontanare nella nostra mente le tragedie prossime. Solo due settimane prima della visita del Papa, la protesta popolare per un aumento di pochi centavos nei trasporti urbani ha provocato una crisi sociale in Brasile, che si è estesa velocemente alle principali città del Paese, provocando morti e feriti. La rapida reazione della Presidente Dilma Rousseff è riuscita a malapena a contenere la crisi, ma il fatto che essa continui, anche dopo la marcia indietro sul prezzo del biglietto, dimostra come il malcontento sia più profondo delle cause contingenti.



Ancora una volta, i dati macroeconomici non riescono a descrivere le condizioni reali in cui vive la popolazione. All’orizzonte dell’economia brasiliana si intravvedono alcuni nuvoloni, quali un’inflazione vicina al 7% nell’ultimo anno, un continuo apprezzamento del dollaro rispetto al real, fughe di capitali all’estero, una caduta nel surplus commerciale prevista nel 50% rispetto al 2012, un calo del 34 % nel 2013 alla Borsa di San Paolo. Ciò nonostante, si può continuare a parlare del Brasile come del Paese più industrializzato dell’America Latina, a un passo dal pieno impiego (il tasso di disoccupazione è solo del 5%), uno dei più informatizzati del mondo con 61 milioni di utilizzatori di Facebook, con quasi 200 milioni di abitanti, dei quali 40 milioni sono usciti dalla povertà negli ultimi dieci anni, entrando a far parte di una consistente classe media. Al centro della critica sociale è lo Stato: panem et circenses non sono sufficienti.



Questo è il modello diffuso in tutti i Paesi latinoamericani, i cui governi si vantano di realizzare progetti “nazionali e popolari”, che però nei fatti si dimostrano la versione più malcelata di demagogia autoritaria, in cui una parte consistente della popolazione, grazie all’ampiezza dei sussidi, vive senza lavorare, con lo Stato che fornisce divertimenti gratuiti, come il “Calcio per tutti” argentino, o Coppa delle Confederazioni + Mondiale + Olimpiadi in Brasile. Lo sport assolve senza dubbio una funzione sociale ed educativa e il calcio in particolare è parte della identità nazionale dei nostri popoli. Tuttavia, oltre che espressione di sane abitudini e nobili passioni costituisce anche un business altamente lucrativo, sempre disposto a farsi manipolare politicamente dal potere di turno, in cambio di favori e privilegi che fanno dei dirigenti sportivi un parapotere quasi vitalizio, che nella maggior parte dei casi sopravvive ai cambi di governo.



Non è casuale che gli indignados brasiliani abbiano levato la loro protesta contro l’organizzazione del Mondiale di calcio dell’anno prossimo e dei Giochi Olimpici del 2016, proprio nei giorni in cui si svolge la Coppa della Confederazioni, una specie di anticipo del Mondiale FIFA, che costerà al Brasile più di 13 miliardi di dollari. La nuova classe media brasiliana, diventata più numerosa come già detto, non si accontenta con ipermercati e shopping center, ma chiede accesso all’educazione, alla salute, alla casa. Lo ha espresso con grande evidenza nella protesta delle ultime settimane. Rifiuta la organizzazione dei grandi avvenimenti sportivi perché sa che, anche se avranno successo e il Brasile guadagnerà la sua sesta coppa mondiale, questo non servirà a cambiare la sua condizione concreta, ma sarà, piuttosto, motivo di distrazione e porterà a stornare risorse pubbliche che potrebbero essere utilizzate per altri scopi ben più prioritari.

 

Secondo il rapporto dell’ONU intitolato “Stato delle città dell’America Latina e dei Caraibi 2012”, presentato proprio a Rio de Janeiro nell’agosto dello scorso anno, 180 milioni di latinoamericani vivono nella povertà (più di un terzo della popolazione dell’America latina) e di questi 71 milioni sono indigenti. Questi dati fanno dell’America Latina l’area con la maggior diseguaglianza nel mondo, superando l’Africa, continente che si pensa essere il primo per tutti i problemi sociali. In America Latina, il 20% più ricco gode di un reddito pro capite venti volte superiore di quello del 20% più povero, e il Brasile è ultimo in materia di distribuzione dei redditi, dopo Guatemala, Honduras e Colombia che lo precedono negli ultimi posti. E’ poi il sesto Paese latinoamericano per numero di poveri e indigenti, dopo Honduras, Paraguay, Bolivia, Colombia e Messico, malgrado abbia aumentato dell’8% il suo contributo al Pil dell’America Latina, senza per questo riuscire a risalire dal tredicesimo posto per Pil pro capite tra i Paesi del continente.

 

E’ questa una conferma che la crescita macroeconomica non garantisce automaticamente il benessere del popolo, se i governi si limitano a confidare in un “effetto cascata” dalla classe alta alle classi inferiori e se la distribuzione ineguale della ricchezza viene affrontata esclusivamente con la concessione di sussidi condizionati politicamente, invece che inserire le persone nel mercato del lavoro e perseguire una continua qualificazione dei lavoratori perché possano così accedere a lavori di maggior responsabilità e compensati meglio. La democrazia, come sistema di governo, non esaurisce la sua ragion d’essere nell’ aspetto istituzionale, quantunque esso sia il fondamento di tutto, una materia in cui molti Paesi latinoamericani, peraltro, danno cattiva prova ogni volta che sono sottoposti ad esame, per esempio cercando di violare l’indipendenza dei poteri o di limitare la libertà di stampa e di opinione.

Occorre anche rispondere alle esigenze vitali delle persone e delle famiglie perché la democrazia rimanga impressa nella coscienza dei cittadini come il miglior sistema possibile di convivenza politica. Per questo hanno protestato i brasiliani negli scorsi giorni, per democratizzare il benessere, il progresso, l’educazione, la salute, l’accesso alla proprietà. Una sfida per il subcontinente che nell’ultimo decennio è diventato quello che la scienza economica definisce “mercati emergenti” e, nel caso particolare del Brasile, un nuovo asse del potere globale (BRIC), insieme con Cina, Russia e India, che compete con Stati Uniti ed Europa per la leadership mondiale. Cosa ha fatto il Papa perché quasi quattro milioni di persone abbiano occupato la spiaggia di Copacabana senza che si registrasse un solo fatto di violenza? Quello che fa la Chiesa da che esiste: abbracciare l’umano nella sua totalità e promuovere la cultura dell’incontro.

 

Fin dall’aereo che lo portava da Roma in Brasile, il Santo Padre ha insistito sulla necessità di dar luogo alla “cultura dell’inclusione, dell’inserimento di tutti nella società”. E nella cerimonia di benvenuto che ha dato inizio alla Giornata della Gioventù, facendo sue le parole dall’Apostolo Pietro, ha dichiarato ai quattro venti qual è il capitale con il quale la Chiesa dà il suo apporto alla storia e al mondo: “Non ho né oro, né argento, però porto con me il maggior valore che mi è stato dato: Gesù Cristo”. A partire dalla visita alla favela di Varginha, le parole di Papa Bergoglio si sono fatte più incisive sulla questione sociale: “Nessuno può rimanere insensibile alle disuguaglianze che ancora ci sono nel mondo!Non è, non è la cultura dell’egoismo, dell’individualismo, che spesso regola la nostra società, quella che costruisce e porta ad un mondo più abitabile; non è questa, ma la cultura della solidarietà; la cultura della solidarietà è vedere nell’altro non un concorrente o un numero, ma un fratello.

 

E tutti noi siamo fratelli!” Nell’incontro con la classe dirigente brasiliana hizo incapié reclamando “ una visione umanista dell’economia e una politica che realizzi sempre più e meglio la partecipazione della gente, eviti gli élitarismi e sradichi la povertà.” indicando il metodo: “il dialogo costruttivo. Tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo.” Dopo la partenza del Papa, il sindaco di Rio de Janeiro, Eduardo Paes, ha dichiarato di essere rimasto profondamente colpito dal Santo Padre e che da ora in poi sarebbe stato molto più attento alle richieste della gente e al dialogo con tutti, annunciando che trasformerà in un quartiere popolare il Campus Fidei, l’enorme area che a causa della pioggia non si potè utilizzare per la Vigilia con i giovani. Alla fine, il Papa ha detto che “il vero terreno della fede non è un luogo geografico, ma siamo noi”. Francesco lo ha dimostrato.