Quello che più sorprende delle inchieste sull’omofobia – quella più recente pubblicata ieri (5 agosto 2013) su Il fatto quotidiano riguardante l’esperimento di Timothy Kurek, fintosi omosessuale per un anno, con grande scandalo della società conservatrice dell’America del sud, e quella già di qualche anno, a cura di Ilaria Donatio, pubblicata da Newton Compton dal titolo provocatorio Opus gay – viene riassunto molto bene da un’espressione che il giornalista deIl fatto quotidiano sembra lasciarsi sfuggire al termine del suo articolo quando scrive a proposito dell’esperimento Timothy che si tratta di “una storia non completa, dove manca la realtà e il vero peso delle cose”.
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Quasi incidentalmente si dice, forse, ciò che più ci interessa: la realtà nella sua verità. È vero che, a volte, può essere utile fingersi ciò che non si è per sperimentare una condizione che non ci è dato di vivere, ma tale “finzione” può avere una sua validità solo se è utile verso di sé: per capirne, cioè, non i condizionamenti esterni, ma quelli interni, quelli che possono riferirsi alla propria persona e ai propri sentimenti. Fingersi ciò che non si è non può farci cambiare natura e, pertanto, non potrà farci fare la stessa esperienza di coloro che imitiamo, soprattutto quando si tratta poi di esperienze interiori e personalizzanti. A meno che non si voglia considerare l’omosessualità una sorta di malattia incurabile, come sembra ritengano tutti coloro che hanno interagito con l’attore Timothy, o con chi ha finto la propria omosessualità andandosi a confessare in varie chiese romane.
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Esperimenti così, oltre a non essere per nulla “scientificamente validi” – come si vorrebbe sostenere – ma solo “giornalisticamente sensazionali”, non hanno né potrebbero ottenere alcuna pretesa di universalità, ma ci lasciano come unico scopo quello di esserci immersi in un mondo non nostro, un mondo altrui che non possiamo riconoscere se non come altro da noi. Come quando ci si finge in carrozzella, o non vedenti, e si vive un’intera giornata in una condizione non nostra. Qual è il risultato di una sperimentazione? La consapevolezza e il riconoscimento della propria diversità, della propria disabilità, della propria intolleranza. Con un unico nota bene: ciò che abbiamo di fronte non è più qualcosa di estraneo, ma un’alterità reale che ci interpella e chiede di essere accolta così com’è.
Vengono in mente le parole che Papa Francesco ha detto a riguardo, nel viaggio di ritorno dalla giornata mondiale della gioventù, a quei giornalisti che lo incalzavano sulla “lobby gay” presente in Vaticano, tagliando corto ogni polemica e andando dritto allo scopo: “Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?”. Ricordando che il catechismo della Chiesa Cattolica non parla mai di discriminazione ma di accoglienza.
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Il vero problema, quello che emerge anche dalle ultime leggi contro l’omofobia, è che viviamo in una società nella quale ciò c’è più ci infastidisce e, quasi, ci terrorizza è la diversità (non solo quella di genere, ma anche la diversità di razza, di religione, ecc.), per cui ci preoccupiamo di normarla in tutte le sue forme, come se bastasse una legge per realizzare quel mondo perfetto, quella società perfetta, in cui si possa non avere più bisogno di essere buoni. Ma cosa ci dice ultimamente la diversità? Di cosa è segno? Del fatto che noi non siamo soli, non possiamo concepirci soli perché anche biologicamente abbiamo bisogno di qualcun altro che ci generi o con cui poter generare: è il grande miracolo della diversità (a volte troppo in fretta dimenticato) tra un uomo e una donna che decidono di vivere per sempre insieme.
Perché si possa accogliere la diversità, non occorrono esperimenti mentali o finti, inchieste giornalistiche o sociologiche, e neanche occorrono norme che regolino i rapporti tra le persone: occorre quel cambiamento di mentalità e del cuore che solo una “misericordia divina” – come ci ricorda spesso Papa Francesco – o una “carezza del Nazareno” (come amava dire Jannacci) possono donarci.