Alla fine è arrivata, la tanto attesa prima mossa di Francesco: nuovo Segretario di Stato Vaticano, conferma di molti collaboratori scelti da Benedetto XVI. Già si sprecano i titoli ad effetto. “Finisce l’era Bertone”, “Francesco cambia”, “Torna la grande scuola diplomatica della Santa Sede”. Molte suggestioni, poca ciccia. 



Di fatto a quasi sette mesi dalla sua elezione a successore di Pietro, Bergoglio da Buenos Aires inizia a costruire la sua Chiesa, con la prima vera nomina rilevante, dopo la creazione di una serie di commissioni interlocutorie che nell’intenzione del pontefice argentino dovranno mettere ordine in quasi tutto. Curia e Ior, sacri palazzi e sistema finanziario, dicasteri e conferenze episcopali. Il tentativo è ambizioso e obbligato. Lo ha spiegato bene anche Francesco nella sua intervista a cuore aperto sull’aereo che lo riportava in Italia dopo il trionfale viaggio brasiliano: il suo pontificato deve rispondere ad un’esigenza diffusa, emersa durante le congregazioni che avevano preceduto e preparato il conclave di marzo. 



C’era voglia di cambiamento. Di maggiore collegialità. Parolina magica, di stampo conciliare, che ciclicamente ritorna nei desiderata dell’episcopato cattolico, espressione abusata e poco sostanziata. Ora ci siamo. Nei suoi discorsi brasiliani, quelli più marcatamente ecclesiali, Papa Bergoglio aveva fatto intendere bene il suo disegno di Chiesa. Il progetto c’era, il capomastro pure, (l’architetto è sempre solo uno, un po’ più in alto), mancava la squadra di carpentieri. Ed eccola, nomi noti e collaudati, nessuna novità assoluta. 

Perché chi conosceva bene Bergoglio sapeva la stima nutrita per il Nunzio in Venezuela, il veneto mite e deciso, già distintosi in Segreteria di Stato e in complesse missioni diplomatiche. Alla base come sempre un’amicizia personale, il confronto fruttuoso su alcune situazioni delicate in America Latina, una certa affinità nelle valutazioni pastorali. 

Pietro Parolin, da Schiavon, paesino in terra Veneta, è un uomo fatto per la diplomazia: meticolosità e pazienza, virtù indispensabili per stabilire relazioni fruttuose tra gli stati, le ha ereditate con i geni, insieme ad una buona dose di discrezione e prudenza. 58 anni, sacerdote dal 1980, dall’86 è nel servizio diplomatico della Santa Sede, prodotto perfetto della scuola di Piazza della Minerva. Ha svolto la sua missione sotto tre pontefici, facendosi apprezzare da ciascuno. Primo incarico in Africa, appena trentenne, nella Nigeria islamizzata, poi il Messico, dove viene catapultato nella fase finale della lunga trattativa per il riconoscimento giuridico della Chiesa Messicana da parte del governo massone e anticlericale del Paese. 

Dal 1992 in Vaticano, dentro il Palazzo, seconda sezione. Dopo 10 anni di lavoro continuo la promozione, nel 2002, a sottosegretario della Sezione per i Rapporti con gli Stati. Per le sue mani passano una serie di dossier scottanti: le complicate relazioni con lo Stato di Israele, le trattative con il Vietnam e i negoziati con il regime di Pechino. 

Un uomo con la valigia, che nel 2009, parte nuovamente per l’America Latina, incaricato da Benedetto XVI, che lo ha consacrato arcivescovo, di gestire il rapporto con il governo di Caracas, nella Repubblica Bolivariana di Hugo Chavez. Insomma uno che sa il fatto suo, e che indubbiamente possiede tutte le qualifiche per l’incarico a cui è stato chiamato. 

Ma persino il suo curriculum specchiato non sarebbe sufficiente se non fosse accompagnato dalla dote giudicata indispensabile da Francesco, vale a dire la capacità di testimoniare la fede. Parolin non è solo il fine diplomatico che tutti lodano, l’uomo di grande esperienza che sicuramente saprà consigliare Papa Bergoglio nella difficile stagione che si apre, con i venti di guerra sempre più tumultuosi nel mediterraneo, la difficile posizione della Chiesa nello scacchiere mediorientale, le nuove aree di crisi e la necessità di rafforzare la missione in Oriente. Mons. Parolin è uno che ci crede. E molto. 

A Francesco non servono burocrati, né raffinati diplomatici, né tantomeno collaboratori efficienti. O meglio servono nella misura in cui i loro talenti sono subordinati e orientati dall’amore per Cristo e la sua Chiesa. In fondo è solo su questo che si misura e giudica un uomo di Chiesa. Con questo metro bisognerebbe archiviare la stagione bertoniana. Lascia l’incarico un protagonista della vita ecclesiale degli ultimi anni. Un uomo diventato spesso bersaglio facile di accuse e critiche, in un momento in cui la barca del Signore veniva sbatacchiata da tempeste vorticose. Un salesiano allevato nella carità e a riconoscere i nemici della fede. Che non sono mancati. Imperfetto nella sua azione. Forse. Ma sicuramente fedele ai successori di Pietro. E di questi tempi non è poco.