A Trescore la conoscevano tutti. Aveva fatto nascere un sacco di bambini, e anche se adesso lavorava al Sant’Anna a Brescia aveva ancora il suo studio nel centro del paese. Voleva molto bene ai “suoi” bambini, chiedeva sempre le loro foto, le conservava scrupolosamente. Sul suo profilo Facebook ne aveva postate un sacco. «E dopo aver ricevuto le mamme per la visita – racconta la madre in lacrime – il suo ambulatorio rimaneva aperto ancora per le ragazze straniere che avevano bisogno di un consulto, le visitava gratuitamente. Non ha mai chiuso la porta in faccia a nessuno». Già, non aveva mai chiuso la porta in faccia a nessuno Eleonora Cantamessa, 44 anni, ginecologa. E così l’altra sera, di fronte a due uomini in una pozza di sangue, non si è chiesta chi fossero, non ha aspettato il 118: ha onorato il giuramento d’Ippocrate, si è chinata per aiutare la vita di un uomo. E un altro uomo ha portato via la sua.
A Chiuduno, il paese dove è avvenuto il fattaccio, naturalmente non si parla d’altro: dal giornalaio, al bar, sul sagrato della chiesa. La nota che domina, però, non è la rabbia; piuttosto lo stupore, lo smarrimento: «anche da noi», «qui non era mai successo», «proprio gli indiani»… Già, «proprio gli indiani»: perché gli indiani, qui, sono di casa. Lavorano nelle serre, lì, lungo la strada della morte che segna il confine tra la pianura e la collina; o nelle stalle un po’ più in là, nella bassa, come mungitori (e non solo: quando i vecchi agrari passano la mano, e i figli non hanno voglia di prendere in mano la stalla, sono loro che comprano e mandano avanti l’attività). Sono qui da decenni, fanno vita appartata, non si mescolano alla gente del paese; ma non hanno mai dato problemi. «Sono dei gran lavoratori», riconoscono gli imprenditori della zona. «La strada è di passaggio, sarà gente di fuori», è un commento che si sente ripetere.
Certo, il sindaco leghista è sbottato: «basta con il buonismo! Non c’è posto neanche per un immigrato in più!». Ma più che un rigurgito razzista sembra il risentimento per la latitanza delle autorità. Tempo fa mi capitò di raccogliere lo sfogo di un vigile urbano di un comune delle vicinanze, aveva catturato degli scippatori, con tanto di inseguimento e scontro a fuoco, e tre mesi dopo li aveva visti uscire di galera: «chi me lo fa fare di rischiare ancora la pelle?». E non erano stranieri. «Le caserme delle forze dell’ordine sono costrette a ridurre i turni di sorveglianza delle strade perché mancano persino i soldi per la benzina delle volanti, i sindaci non hanno più nessun tipo di strumento atto a fronteggiare l’emergenza sicurezza sulle nostre strade», rincara il sindaco: ecco, è l’inefficienza dello Stato che brucia ai bergamaschi, non il colore della pelle.
Anche perché gli indiani sono costernati quanto gli italiani. Proviamo a fare un giro nei luoghi dove si incontrano, a raccogliere qualche parere. All’inizio sono cauti; ma quando capiscono che non ce l’abbiamo con loro si aprono: «mi piange il cuore per quella dottoressa. Non è giusto. Perché uno che fa il suo dovere deve avere paura?». Stanno aspettando che i giornali facciano i nomi, vogliono capire chi ha compiuto un’azione che rischia di ricadere su tutti. Il mio interlocutore è in Italia da sedici anni, il padre addirittura da quaranta, hanno comprato la casa, stanno chiedendo la cittadinanza. «Certo, i buoni e i cattivi ci sono dappertutto. Ma agli indiani non interessa la macchina, la discoteca… Agli indiani interessa il lavoro». Il lavoro: forse è questa la parola magica su cui indiani e bergamaschi si incontrano.