Caro Direttore, Il vento caldo della primavera orientale riecheggia tra le vie della piccola al Qusayr; la città è da poco tempo nelle mani dei ribelli, ma i lealisti di Assad non si arrendono e ogni giorno un brandello di quelli che un tempo erano i quartieri e le piazze del piccolo insediamento umano sulle rive dell’Oronte è martoriato dal fuoco delle bombe e delle mitragliatrici, dai tradimenti degli uomini e dai loro piani di guerra.



Arriva così la notte su al Qusayr. Laggiù, nella zona orientale del borgo, quella stessa zona che oggi è stata la prima linea degli scontri e dei combattimenti, c’è una casa segnata dalla guerra e martoriata dagli spari. Là dentro, al chiarore opaco di alcune vecchie lampadine, si consuma il rito della sera, la preghiera di due uomini in dialogo con Allah. Accanto a loro, lerci e dilaniati da alcune settimane di prigionia, stanno Domenico Quirico – inviato de La Stampa – e un suo amico, compagno in un rapimento avvenuto per la brama di qualcuno e per l’ingordigia di qualcun altro. Domenico è un credente, un cristiano, uno con la fede del prete che passa in mezzo alla campagna e benedice le case e le opere dell’uomo. La fede di Domenico non è però una fede complicata, è una fede semplice, ricca di umanità. Una fede che, dinnanzi alla preghiera dei suoi sequestratori, non può fare a meno che chiedersi: “ma che cosa staranno dicendo questi uomini al loro Dio”. In Siria, racconta Quirico, ho visto il male, l’ho visto nella gioia dei vecchi e dei bambini al vedere il mio dolore, l’ho visto nella soddisfazione dei miei carnefici per le loro opere di disumanità, ma – soprattutto – l’ho visto accompagnato dalla preghiera. E questo mi ha fatto male.



A sentire il racconto di Domenico, che qui abbiamo volutamente parafrasato per poter entrare in dialogo con lui, ritornano alla mente le tante critiche che i secoli hanno rivolto alla religione: coacervo di superstizioni, pretesto per il potere, oppio dei popoli, tana degli istinti più abominevoli. Il fatto è che queste non sono soltanto frasi: il cuore sa che dire religione, nella storia, spesso ha significato dire “guerre di religione”, “crociate”, “inquisizione”, “violenza”.

Certo, il vecchio papa tedesco ci ha provato a dire più volte, a partire da quel 2006 dove a Ratisbona evocò la questione con parole dirompenti, che Dio non può mai chiedere qualcosa che sia contro la ragione dell’uomo e che la violenza e la guerra non apparterranno mai alle richieste di Dio; ma gli uomini di oggi – certamente pilotati dal potere – non riescono a cancellare il Got mit uns dei tedeschi del terzo Reich o gli abusi sui minori che nella Chiesa ci sono stati, e non cinquant’anni fa, ma l’altro ieri. 



Davvero sembra che tutto deponga contro la religione, davvero – per dirla con Comte – c’è solo da sperare che la religiosità sia uno stadio momentaneo della vita dell’umanità, prima di trovare la strada del bene e della pace.

Ma il racconto di quella notte ad al Qusayr non può finire così; esso ha bisogno di essere ancora ampliato, descritto, guardato, fino in fondo. Infatti Dio non era tra i sequestratori ad al Qusayr, essi erano semplicemente degli uomini. E Dio non è mai responsabile delle azioni degli uomini. Dodici anni fa un manipolo di terroristi sceglieva di servire Dio distruggendo le Torri Gemelle, simbolo dell’Occidente. Cinque secoli fa alcuni re francesi decidevano di servire Dio sterminando gli Ugonotti, simbolo dell’eresia protestante. Migliaia di anni fa un popolo decideva di servire Dio costruendosi un vitello d’oro, forma visibile di un Dio grande che aveva portato Israele fuori dall’Egitto.

Gli uomini hanno davvero bisogno di Dio. E siccome non riescono ad attendere, a cogliere i momenti e i ritmi della Sua Presenza, fabbricano essi stessi il loro Dio. Ognuno di noi ne ha uno. Ognuno di noi è credente. Credere di non credere è l’ultimo tentativo di non rivelare a nessuno il nome del proprio Dio. L’ateismo non ha nulla a che fare col cuore dell’uomo, è la religione che lo segna e lo minaccia; è l’idolatria che lo forma e lo fa vivere. Recentemente papa Francesco, a tal proposito, ha ricordato la definizione di idolatria coniata dal Rabbino Kock: l’idolatria avviene “quando un volto si rivolge riverente ad un volto che non è un volto”.

Chi siamo noi, caro Quirico, per giudicare il volto verso cui quegli uomini, in quella notte, hanno rivolto la loro preghiera? È il loro volto, il volto di quegli uomini, che noi possiamo giudicare. Ma non il volto del loro Dio. Chi siamo noi per dire l’ultima parola sulla tragedia di un popolo che prende le armi per servire Dio? Chi siamo noi per condannare il male come se da esso ne fossimo in qualche misura esenti? Chi siamo noi, infine, per stabilire con chi parlare e con chi tacere, chi adulare e chi infangare, chi distruggere con le nostre parole o chi torturare con le nostre chiacchiere?

Noi non sappiamo davvero che cos’è umano. Quel poco che sappiamo, lo sappiamo perché qualcuno ce lo ha mostrato, qualcuno ce lo ha donato come un’eredità. Ma siamo i primi a schiacciare questa umanità vera che ci è stata donata con le riduzioni della nostra mente e le emozioni del nostro cuore. Dio non è il responsabile dei nostri sì e dei nostri no, Dio non è il colpevole della violenza che ci abita, del desiderio di vendetta e di rivalsa che ci infiamma. No, Dio quella sera era solo responsabile del vento, il vento che echeggiava fra le vie della città.

E quel rumore, quel pigolio fastidioso che non si sa mai come far cessare, altro non era che il modo per dirle: “caro Domenico, io non so che cosa vogliano costoro, ma so soltanto che Io sono con te”. Quella sera Dio non si è schierato con una religione, non ha imbracciato la Bibbia e non ha letto il Corano, non ha difeso il Talmud e non ha neppure spiegato agli uomini come si dovevano comportare. Quella sera Dio ha fatto l’unica cosa che sa davvero fare: parlare e mendicare che, dall’altro capo della vita, ci fosse un cuore pronto ad ascoltarlo.

Questo è il nostro Dio, questo è quello che noi chiamiamo “cristianesimo”.