Il rapporto sulla felicità nel mondo, il World Happiness Report (WHR) presentato in questi giorni dall’Onu, dice che l’Italia scivola dal 28° al 45° posto. Una scivolata che non è il male assoluto. Ma le classifiche vanno guardate ed esaminate con circospezione. Sono ottimi spunti di riflessione e di stimolo, ma attenzione a trarre conclusioni affrettate e a declinare teoremi economici. Nel Rapporto sulla “felicità mondiale” c’è la presa di coscienza di una rivisitazione degli indicatori utili alla misurazione del progresso di una nazione e del mondo: ormai accanto a misure quantitative dello stato dell’economia dei paesi si affiancano misure qualitative dello stato della società dei Paesi medesimi. Tutto questo è certamente positivo, è un grande passo avanti.



Prendere in esame indicatori eterogenei, sintetizzarli per generare un indice unico come quello della felicità realizzato dall’Onu, potrebbe però generare dati non perfettamente corretti: è uno dei problemi che il Comitato Cnel-Istat sugli indicatori di benessere sta affrontando da tempo. Inoltre, è importante evidenziare la differenza che può esserci tra un dato soggettivo, come quello della soddisfazione per la propria vita, e un dato oggettivo come, ad esempio, il numero di posti letto nelle strutture residenziali socio-assistenziali e sanitarie per 1.000 abitanti. Dunque, il mix di dati soggettivi e oggettivi, come si è fatto in Italia con il Bes, può contribuire a indirizzare i decisori politici in modo più coerente con la realtà e con le esigenze della società. Un “cruscotto” di soli indicatori soggettivi, invece, rischia di dare dignità più ai sogni dei singoli cittadini che non alle reali necessità comuni.



Certo, questo non è un gran momento per il “Bel Paese”: imprese in crisi e disoccupazione in crescita, Governo in bilico. Eppure alcuni dati positivi ci sono: il clima di fiducia dei consumatori cresce da ormai quattro mesi. A questo proposito, un recente studio della Banca d’Italia ha ribadito che “la teoria economica valuta da tempo la possibilità che le ondate di ottimismo e di pessimismo possano considerarsi delle determinanti importanti dei cicli economici”. E del resto le stime del centro studi di Confindustria sull’andamento dell’economia italiana sembrano essere la prova provata di questo studio. Allora come spiegare questo paradosso che vede l’Italia “meno felice” di altri 44 Paesi nel mondo e che contestualmente registra iniezioni di fiducia nel sistema da parte dei consumatori?



È il “paradosso della felicità”, efficacemente definito nel 1974 da Richard Easterlin, professore di economia all’Università della California meridionale e membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze. Nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di ricchezza, ci dice Easterlin. Infatti, sosteneva il Professore Californiano, quando aumenta il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino a un certo punto, poi comincia a diminuire. Parafrasando Gramsci, verrebbe da dire che al pessimismo della ragione abbiamo sostituito l’ottimismo della felicità.