Bella e diretta la lettera con cui papa Francesco risponde a Eugenio Scalfari; alle domande che gli aveva rivolto dalle pagine di Repubblica da “non credente”, che “non cerca Dio”, come tiene a ricordare presentando ai lettori le risposte del Papa; non credente, e tuttavia “da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e Giuseppe, ebreo della stirpe di Davide”, pur nella convinzione che Dio, anche il Dio Cristiano, sia “un’invenzione consolatoria della mente degli uomini”.
La non poca sorpresa del destinatario, per l’effusiva affettuosità della lettera di Francesco, sorprende chi stia guardando alle mosse di questo Papa in quest’avvio di pontificato in verità fino a un certo punto: con più o meno risonanza pubblica, da quello che si sa non è il primo gesto in questo senso di Francesco, anzi. È come se il Papa, uscito dai paramenti e dal cerimoniale, si premurasse di comunicare uno stile di semplicità, di apertura, di sollecitudine per le persone non in astratto, ma per quella o questa persona, con le sue domande, le sue difficoltà, le sue speranze, come quello che deve essere lo stile del cristiano. E non è una questione di estetica. In concreto, e nello stesso giorno, quello stile è anche l’invito “ai suoi”, alla Chiesa innanzi tutto, a mettere a disposizione per i rifugiati i conventi vuoti, che “non sono nostri”, ma che “sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati”. E’ lo stile che tanti incontrano nei tanti cristiani all’opera nelle “periferie” del mondo, lo stile che avvicina alla Chiesa che si fa vicina.
La lettera a Scalfari è un tassello di questa predicazione come “esercizio di stile”. E un tassello significativo. Per due motivi, innanzi tutto; per due cose che viene a dire.
La prima è che il dialogo su Repubblica tra Scalfari e Francesco manda in soffitta, si spera, quell’autentica superstizione intellettuale della modernità che è stata la funesta contrapposizione tra ragione e fede, un autentico paradosso, come si esprime Francesco, patito da una fede, quella cristiana, “la cui incidenza e novità sulla vita dell’uomo fin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce”, il lumen fidei, che è poi il titolo dell’enciclica a quattro mani di Francesco e di Benedetto XVI da cui prende le mosse il dialogo con Scalfari. Un dialogo con cui arriva al grande pubblico la fine di una non illuminata superstizione illuministica della modernità (cui qualche contributo ha certo dato la stessa vicenda storica della Chiesa), l’incomunicabilità tra ragione e fede; fine di un’incomunicabilità che nel dibattito pubblico più avvertito era stata già sancita dal dialogo a Monaco nel 2004 tra Joseph Ratzinger e Jürgen Habermas.
È un segno importante – e Francesco lo sottolinea – che l’intento del Vaticano II è stato raggiunto: riaprire un dialogo senza preconcetti tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista dall’altra; per incidens ricordando che la cultura moderna illuminista, anche nel suo negazionismo della ragionevolezza, quanto meno, della fede, si muove in un paesaggio “liberale” il cui fondale è stato preparato dalla separazione, nell’insegnamento di Gesù di Nazareth, tra ciò che si deve a Dio e ciò che si deve a Cesare: il fondamento ab intra, nell’esperienza religiosa, istituente la laicità dello spazio pubblico.
La seconda cosa, e qui siamo già nel merito delle risposte che Francesco dà a Scalfari, è che il dialogo con chi non crede “non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente, ma ne è invece un’espressione intima e indispensabile” (Lumen fidei, n. 34). E questo non solo per il desiderio del cristiano di “comunicare” agli altri la gioia della sua personale “scoperta” di Cristo; per il bisogno di un annuncio che vorrebbe condividere i doni di vita e di esperienza ricevuti. Ma perché la fede cristiana è comunionale nella sua stessa essenza, non solo come comunione in Cristo dei fedeli, vissuta e alimentata in una comunità di fede; ma come comunione di umanità di tutti gli uomini in Cristo; tutti figli, anche chi non alzi gli occhi al cielo, dello stesso Padre celeste, e tutti fratelli in Cristo, nel Figlio. Il Dio che si è incarnato non vive solo nella carne di chi crede in Lui, ma anche nella carne di chi non crede, che resta sempre come uomo un’occasione per il Padre, un figlio che può tornare e comunque un fratello da amare.
Per questo con semplicità Francesco può ricordare a Scalfari che dal bisogno di Assoluto di cui vive anche la fede cristiana non c’è nulla da temere per una ragione in dialogo, perché questo bisogno di nient’altro si sostanzia che di una vita di relazione con Dio, che si fa lievito di crescita di ogni relazione umana, nella comune umanità di chi crede e di chi non crede: il tratto di strada da fare insieme fino alla fine. Senza pregiudizio, sta alla ragione dire, guardandosi intorno, se davvero possiamo fare a meno almeno di questa consolazione.