Il 15 settembre di vent’anni fa veniva ucciso a Palermo, nel quartiere Brancaccio, don Pino Puglisi, sacerdote proclamato beato lo scorso 25 giugno. La Chiesa ha riconosciuto il martirio del sacerdote palermitano in odium fidei, decretando così che la causa della sua morte sia derivata dall’odio che la mafia portava alla sua attività pastorale e missionaria. Per la mafia non era più tollerabile la presenza di quel sacerdote, perché si poneva in netta contrapposizione con il controllo delle persone e delle coscienze che essa esercitava sugli abitanti del quartiere.



Uno tra gli elementi decisivi che ha condotto la Congregazione delle Cause dei Santi a decretare, dopo un lungo iter processuale partito nel febbraio del 1999, la sua beatificazione è certamente il materiale probatorio dei tre processi che hanno portato alla condanna definitiva di esecutori e mandanti. Questo lungo percorso è dettagliatamente ricostruito nel libro di mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace Padre Pino Puglisi beato. Profeta e martire” (Ed. San Paolo), l’ultimo postulatore della causa di beatificazione, che è stato recentemente presentato al Meeting di Rimini.



Mirella Agliastro, attualmente sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo, è stata giudice a latere del processo svoltosi innanzi la Corte d’assise che applicò l’ergastolo agli assassini di don Puglisi ed è colei che ha materialmente redatto le motivazioni della sentenza di condanna.

Non ha mai accettato finora interviste “come scelta di riserbo e riservatezza, convinta come sono che i giudici devono parlare soltanto con i loro provvedimenti”. Ma poi spiega con grande cordialità che non si è mai sottratta all’impegno civile, soprattutto verso i giovani, e che proprio in chiave di testimonianza è disponibile a ripercorrere l’iter processuale “che portò alla condanna all’ergastolo degli esecutori materiali dell’infame delitto”. Coerente con il suo stile sobrio e riservato ci riceve nella sua stanza del tribunale di Palermo.



Dottoressa Agliastro, ci spiega in cosa consiste l’attività di un giudice a latere che deve scrivere le motivazioni di una sentenza? 

Il primo dato da cui partiamo è la ricerca delle prove a carico degli imputati tratti a giudizio e l’impegno ad andare a fondo nell’esame dei dati processuali acquisiti; passiamo poi alla ricostruzione storica e probatoria della vicenda giudiziaria, collegando gli indizi, le testimonianze, le deposizioni, la documentazione, gli esiti delle perizie tecniche e medico-legali, per pervenire ad una spiegazione del fatto delittuoso attraverso il coordinamento di tutti gli elementi di prova che hanno fatto ingresso nel processo.

Quindi?


Poco prima di “andare a sentenza” – si dice così in termini processuali – rileggiamo rigorosamente tutte le carte per verificare se è rimasto qualche elemento ancora poco chiaro o poco esplorato, in modo da avere una visione completa delle “tavole processuali”. Quindi, il dispositivo di condanna e la stesura della motivazione non sono frutto delle sensazioni dell’ultimo momento o della suggestione di questo o quel soggetto processuale, ma la conclusione di un lungo processo logico e giuridico. Questa è l’attività che normalmente si compie e che abbiamo realizzato anche nel processo di condanna per l’omicidio Puglisi e possiamo dire, anche a distanza di tempo, che la ricostruzione che abbiamo documentato nel processo non ha subito mai alcuna smentita. 


E in concreto che cosa ha prodotto? 

È stato cristallizzato che il delitto è stato perpetrato da quattro soggetti, due dei quali materiali assassini resisi poi collaboranti, gli altri due condannati sono rimasti irriducibili. Proprio questi due oggi pentiti, dichiaranti, collaboratori, come vogliamo processualmente definirli, restano gli esecutori materiali dell’infame delitto, e in questo c’è tutta la spinta morale sanzionatoria di cui posso caricare questo aggettivo.

 

A che tipo di ricostruzione siete giunti?

Queste facevano parte del cosiddetto gruppo di fuoco: accanto ai picchiatori, agli addetti a bruciare i negozi, a rubare macchine, a riscuotere il pizzo, a fare le telefonate estorsive, ad eseguire uccisioni e scomparse, è strutturata una squadra che gode di maggior prestigio perché autorizzata a custodire e maneggiare le armi e a sparare alle vittime designate. È l’unità militare armata. Questo gruppo è composto da killer abilmente selezionati dagli uomini di vertice di Cosa nostra, i quali dopo un periodo di tirocinio nell’esecuzione di reati meno gravi, danneggiamenti, estorsioni, e di attenta osservazione delle capacità operative dimostrate, destinano i più abili all’esecuzione di omicidi, in special modo quelli eclatanti di magistrati, poliziotti, giornalisti e comunque vittime illustri.

 

Nella sentenza si definisce la parrocchia di don Puglisi “una enclave di valori cristiani, morali e civili” la quale “non lasciava indifferenti i maggiorenti della zona i quali decisero di eliminare (il sacerdote) per disperdere i frutti della sua opera e del suo apostolato e fare ripiombare il quartiere nella plumbea atmosfera di vassallaggio all’imperante potere mafioso”. A che tipo di realtà si intendeva fare riferimento?

Le isole di legalità nel quartiere erano la parrocchia, il commissariato e le scuole. Secondo la nostra ricostruzione queste isole rappresentavano una enclave che era però sconosciuta ai più. Le persone che ne facevano parte non erano riuscite a penetrare osmoticamente nel tessuto sociale del quartiere e a scardinare l’oppressivo ordine mafioso imposto.

 

Quali soni i valori cristiani, morali e civili di cui si parla nella sentenza?


Quelli morali derivavano dall’impegno di padre Puglisi volto a stimolare nelle persone la crescita di valori che si contrapponevano a quelli dei mafiosi. Quanto a quelli religiosi possiamo dire che è emersa con chiarezza dalle dichiarazioni rese dai tanti testi che abbiamo sentito nel processo, la spinta alla crescita spirituale della comunità, non disgiunta dall’impegno sociale. Collaboravano in molti nel quartiere, soprattutto giovani, ma per la loro generosa attività, essi venivano intimiditi, picchiati, danneggiati nei loro beni, per il fatto che aiutavano quella chiesa coraggiosa, svolgevano attività parrocchiale e intrattenimento dei bambini della zona.

 

E dal punto di vista processuale questo che riscontri ha avuto?

Abbiamo ricostruito tutti i danneggiamenti materiali subiti da queste persone – nelle autovetture o nelle abitazioni – e il clima che, di conseguenza, si respirava nel quartiere. Il mafioso locale percepiva che questi valori, di legalità, di solidarietà, di sostegno morale, veicolati dalle omelie e dall’azione pastorale del parroco, si ponevano in assoluto contrasto con gli pseudo valori, per noi disvalori, che i criminali esprimevano: il mafioso che sa sparare, che sa intimidire, che sa imporre il pizzo, tutti codici valoriali tipici dell’ordinamento mafioso. In questa guerra si contrapponevano la solitudine del prete (al di là dei suoi collaboratori) da una parte ed una struttura militare dall’altra efficiente ed operativa nel quartiere. I valori positivi che abbiamo elencato venivano difesi strenuamente in quella che io ho definito nella motivazione della sentenza enclave (la parrocchia, la scuola, il commissariato).

 

Nella sentenza si fa spesso riferimento all’impegno di don Puglisi verso i bambini. Perché avete ritenuto così importante questo collegamento con la sua attività?

Abbiamo ritenuto che uno dei motivi che hanno portato alla morte di don Puglisi sia stato proprio questo: il prete chiamava nella sua parrocchia  tutti i bambini e li coinvolgeva in varie attività e iniziative, per levarli dalla strada. A Brancaccio, in modo particolare, tradizionalmente e storicamente i ragazzi vengono reclutati come manodopera del serbatoio che dopo servirà a individuare i migliori che diventeranno uomini d’onore. Ma la mafia non si serve solo degli uomini d’onore, bensì di tutto un terreno sociale che le ruota attorno e che le consente di operare sul territorio. In assoluto uno dei moventi più importanti per i mafiosi era che il sacerdote toglieva i bambini dal serbatoio cui la mafia attingeva. Quindi i mandanti dell’assassinio non potevano rimanere inerti di fronte a tale attività.

 

Nella sentenza viene citato anche il temine “martirio”. In che senso lo avete usato?

Desidero subito precisare che per noi si tratta di un martirio “civile”, perché abbiamo analizzato i comportamenti di Puglisi sul piano civile, senza peraltro ignorare che si trattava di un sacerdote. Per noi è stato un sacerdote modello e un modello di sacerdote: abbiamo cioè ricostruito la sua figura come un modello da riproporre ai giovani e come un sacerdote-modello da affiancare a tanti altri sacerdoti martiri nella storia della Chiesa. Il nostro compito di giudici si ferma qui: ricostruire storicamente e processualmente tutta la vicenda. Ai teologi il compito di proseguire.

 

Cosa l’ha particolarmente colpita in questo processo?


Certamente questa figura assolutamente peculiare di sacerdote. Si consideri che venti anni fa – non spetta a me dirlo – non erano molti coloro che interpretavano in questo modo il ruolo di sacerdote. Puglisi aveva la consapevolezza che prima o dopo l’avrebbero ucciso. Abbiamo potuto ricostruire gli ultimi giorni della sua vita: ne emerge una persona che era stata sempre dolcissima come emerge dal sorriso che si scorge in tante fotografie o immagini che lo riguardano, diventata improvvisamente brusca nei tratti umani, che non voleva né raccontare le continue intimidazioni che aveva subito, né voleva che i suoi amici e collaboratori potessero per sua colpa venire coinvolti in azioni di sangue. Aveva chiaro ciò che gli sarebbe accaduto… 

 

Vada avanti, se può.

Uno dei due uccisori, Salvatore Grigoli, riferì la frase di don Puglisi, nel momento in cui gli puntava la pistola: “me l’aspettavo”. A distanza di vent’anni l’altro killer, Gaspare Spatuzza, ha confermato in qualche modo la stessa affermazione. Ma vent’anni fa non potevamo avere la certezza assoluta della veridicità di quanto affermato da Grigoli; poteva essere un falso pentito o un “cavallo di Troia”, cioè poteva dare la sua versione per fare crollare quella ricostruzione processuale o quella di altri processi, o coinvolgere o escludere determinati soggetti. Da qui la necessità di acquisire ogni tipo di riscontro che abbiamo fatto, a partire dalla testimonianza di Grigoli a raffronto con le deposizioni di tanti altri testi, riscontri di attendibilità oggettiva e credibilità soggettiva che ci fece capire di essere sulla strada giusta: tutto l’impianto processuale ha retto in tutti i gradi di giudizio, fino in Cassazione.  


Che cosa ha provato quando ha appreso della beatificazione di don Puglisi?

Un senso etico fortissimo. Amo definirmi un giudice un po’ calvinista, rigoroso, austero, impegnato anche sul piano civile, nelle scuole, nelle comunità, ma sempre nel silenzio e nell’anonimità più assoluti. Ho vissuto nell’osservanza dei valori morali, a partire dal senso della giustizia. Per questo ho ritenuto la beatificazione di padre Puglisi come il riconoscimento di “un’opera di giustizia” nei confronti di un prete che non doveva essere ucciso, “un mettere a posto il senso delle cose. Da noi queste morti si chiamano in dialetto “accattate”, cioè comprate, annunciate, insomma che si potevano evitare. Abbiamo assistito alla rappresentazione di un copione già scritto – ovviamente dalla mafia di Brancaccio – di cui si conosceva l’epilogo. Ma Puglisi era un uomo solo, come erano rimasti soli l’imprenditore Libero Grassi, il generale Dalla Chiesa, i giudici Falcone e Borsellino, i commissari Montana e Cassarà (di alcuni degli omicidi eccellenti ho scritto le sentenze come giudice di Corte d’Assise). Per questo definisco la beatificazione di Puglisi un atto di giustizia, ovviamente laica, almeno dal mio punto di vista di giudice.  


A suo avviso che contributo può dare questa beatificazione all’impegno contro la mafia della chiesa e della società civile?

Ho già detto di un modello di sacerdote e di un sacerdote modello, come testimone della fede ma anche animato dall’impegno civile. In un’altra circostanza ho parlato di Puglisi come di un “manager di Cristo”, cioè come di una persona che si è spesa per Cristo nell’impegno concreto espresso nell’attivare il Centro Padre Nostro, nel sostenere l’azione del coordinamento intercondominiale di Via Hazon, nel sollecito dell’apertura di una scuola media a Brancaccio. Don Pino non faceva solo omelie. È intervenuto nella società civile, ha speso il denaro del suo stipendio di professore per pagare il mutuo per l’immobile del Centro Padre Nostro e comunque per sostenere le opere che metteva in piedi. Ecco, ci vorrebbero tanti piccoli don Puglisi, da affiancare a tante altre grandi personalità che si sono spese per i giovani e l’educazione alla legalità, come don Milani o don Bosco. Mi viene in mente ancora il confronto con il martirio dell’arcivescovo mons. Romero nel 1980 a San Salvador, ucciso sull’altare durante la messa perché aveva difeso i campesinos contro lo strapotere e lo sfruttamento dei grandi proprietari terrieri dell’America Centrale: la mafia, le mafie hanno bisogno di spargere terrore, intimidazione, macerie e morte. 

(Francesco Inguanti)