Non è la prima volta che Benedetto XVI, silenziosamente, riprende la parola nella vita della Chiesa. Ma questa volta è stato tutto diverso. Perché Ratzinger non ha parlato in un colloquio privato o nella stanza riservata di un Sacro Palazzo e le sue parole non sono state né carpite né estrapolate da qualche invitato chiacchierone.



Il Papa Emerito, infatti, è tornato ad esprimersi in una Santa Messa quasi pubblica, conclusione del tradizionale simposio che ogni anno si tiene a Castel Gandolfo tra gli ex studenti del teologo tedesco e che, pertanto, ha preso a chiamarsi “Ratzinger Schulerkreis”. Finito il summit a Castel Gandolfo, cui Benedetto XVI non ha partecipato, tutti gli illustri ospiti sono stati ricevuti nella Cappella del Governatorato Vaticano dove il duecentosessantaquattresimo successore di Pietro ha celebrato l’eucaristia domenicale. Lì il Papa tedesco si è trovato di fronte il Vangelo che tutti i sacerdoti cattolici di rito romano hanno offerto al popolo di Dio nella XXII domenica del Tempo Ordinario: la parabola degli invitati al banchetto che vanno ad occupare subito i primi posti, senza preoccuparsi di conoscere il posto loro assegnato dal padrone, e l’invito di Gesù a non invitare a cena coloro che possono in qualche modo contraccambiare, facendo venire meno l’autenticità e la gratuità dell’invito. E di fronte a queste parole Benedetto, per un istante, ha mostrato a tutti che la sinfonia che oggi suona Papa Francesco è stata direttamente scritta da lui, l’uomo nero dei media, il Pastore Buono che ogni fedele conosce come colui che ha amato così tanto il gregge da fare un passo indietro purché esso fosse opportunamente guidato e custodito.



Infatti il Papa Emerito ha parlato del desiderio che abbiamo di occupare i posti di prima fila senza capire come essi possano essere posti molto brutti e pericolosi per la crescita della nostra stessa vita. Al di là del sotterraneo appello contro ogni carrierismo, e del riecheggiare delle parole di Francesco che – ad una studentessa – dichiarò che “chiunque desideri fare il Papa non è a posto con la testa”, Ratzinger parla ad ognuno di noi e ci sfida – proprio come pochi metri più in là stava facendo Papa Bergoglio parlando della guerra e della pace – ad occupare fino in fondo il nostro posto. Il pensiero va ovviamente alle parole di piazza san Pietro, dove Francesco ha chiesto ai cristiani di costruire la pace “facendo” la pace, con i gesti e con i fatti. Ma il pensiero non può non andare a tutte quelle madri che vedono morire il loro figlio e vorrebbero scappare, a quei mariti che scoprono di non amare più la loro moglie e desidererebbero cedere alla tentazione di un sentimento facile e a buon mercato, a quei figli che, dinnanzi ai loro genitori colpiti da mali oscuri e misteriosi, avrebbero soltanto voglia di staccare la spina per spegnere il dolore. 



Occupare il proprio posto senza desiderarne un altro che magari ci appare migliore, ma che non è quello pensato per noi: questo ci fa giganti nella storia e autentici nell’amore. L’amore al nostro posto, infatti, a quel posto che Dio ci ha dato, è quello che ci rende uomini, che costituisce la stoffa di quel dolore che − come dice Claudio Chieffo − “toglie il gusto alle cose ma riempie le parole di vita e le colora”. Ci vuole coraggio per non cedere ai facili cambi di posto che la vita ci offre, per non abbandonare un amico che sta male o per tenere la distanza santa che rende un rapporto tra uomo e donna sacro e non declinazione di un gesto animale. Ci vuole coraggio, ma ci vuole − soprattutto − la consapevolezza del Grande Amore che tiene nelle mani il nostro Io. 

Cristo è stato talmente certo dell’amore di questo amore da “accettare di nascere nella stalla” e di “salire fino in cima alla croce”. Per questo io mi fido di Lui, perché nemmeno a Lui − il Risorto, Colui che è pieno di vita − la vita è stata risparmiata. Senza questa coscienza non è possibile abbracciare con serietà i propri cari o guardare al futuro di un figlio segnato dall’handicap e dalla sofferenza continuando a sorridere, a sperare e a costruire. Solo in questo Abbraccio − ha detto Benedetto − anche “chi, in questo mondo e in questa Storia, viene spinto in avanti e arriva ai primi posti” può guardare ancora di più al Signore, misurarsi a Lui, misurarsi alla responsabilità per l’altro, diventando colui che serve, “quello che nella realtà è seduto ai piedi dell’altro”, benedicendo il posto che il Signore gli ha affidato e diventando − a sua volta − benedetto. 

Noi possiamo vivere con gusto e verità la vita solo se impariamo a dialogare, se impariamo a rispondere, al Mistero che ci interpella e che ci parla dentro tutte le cose, sussurrandoci − come Papa Benedetto − la dolce melodia sulla quale possiamo cantare, commossi, il nostro grazie a Dio. Una vita non è sprecata se sa tornare indietro quando tutto è andato avanti, se sa ricucire ciò che si è strappato, se sa perdonare ciò che si è patito, se sa amare ciò che si è odiato. Una vita non è sprecata − insomma − se, dopo ogni umana e comprensibile fuga, sa semplicemente tornare ad occupare il posto che Dio le ha assegnato.