Come i cowboy, il cui cavallo era stramazzato per terra per la fatica e che vagavano per il selvaggio West con un sella in mano, alla ricerca di una nuova schiena su cui appoggiarla, i due “nuovi-Br” Alfredo Davanzo e Vincenzo Sisi si sono rivolti al movimento No-Tav, invitandolo a fare un passo in avanti sulla strada della Resistenza militare (“resistenza” è un vocabolo No-Tav) in val di Susa.



Poiché i due appartengono al Partito comunista militare (Pcm) e poiché settori del composito Movimento No-Tav ricorrono sistematicamente a forme di lotta violenta e organizzata, l’affinità di approccio politico-militare appare evidente e promettente. E sempre alla ricerca di affinità elettive, i due nuovi-Br un’altra hanno creduto di trovarla nell’atteggiamento degli imputati No-Tav al processo di Torino, che hanno revocato l’incarico ai loro avvocati, analogamente a quanto hanno sempre fatto i Br, vecchi e nuovi, nelle aule di tribunale. “Simpatiche convergenze” le ha definite il duo. Forse avevano in mente quell’intellettuale tutto d’un pezzo, che si chiama Erri De Luca, che di giorno scrive pindariche liriche sul sabotaggio e di notte si cala il passamontagna e inforca le cesoie per tagliare qualche recinzione alla moda dei commandos dei film americani.



Siamo dunque in un action-movie a lieto fine? Non pare. Intanto, perché la violenza è un dato di fatto quotidiano, che si esprime in sabotaggi agli impianti – undici solo dal mese di luglio, l’ultimo dei quali all’azienda di Ferdinando Lazzaro, appena uscito da una trasmissione televisiva in cui denunciava quelli subiti in precedenza -, in assalti di massa ai cantieri e nella più recente messa sotto assedio a Torino del Palazzo di giustizia e della sede del Pd. Per quanto non sembrino esistere oggi le condizioni che portarono negli anni 70 le vecchie Br a costruirsi attorno una cerchia di influenza e una base di reclutamento piuttosto larga nelle fabbriche, negli uffici, nelle università e nelle scuole, nei mass media e presso molti intellettuali di chiara fama, resta che è più facile reclutare sui campi di battaglia che nei salotti. E la Val di Susa è divenuta da tempo un campo di battaglia quotidiano. Non è improbabile che prima o poi ci scappi il morto, voluto o casuale, come l’esperienza insegna, con effetti drammatici sul quadro nazionale oltre che piemontese.



Ma ciò che desta maggiori preoccupazioni è il rilievo simbolico che la Tav ha assunto nella coscienza “antagonista”, che percorre il Paese, da sempre, e che improvvisamente si gonfia ed esonda in condizioni particolari. Diversamente da tutti gli altri Paesi europei, in Italia accade l’eterno ritorno dell’antagonismo irriducibile, che si annoda di volta in volta intorno a questioni locali o nazionali e vi si appoggia per andare allo scontro violento con lo Stato.  

Si tratta di una costante storica, che rimanda al modo con cui si è costruito lo Stato unitario, quale ambito in cui grandi masse popolari non sono riuscite a riconoscersi fino in fondo, perché non vi ha trovato né giustizia e né riscatto.

Il peccato originale di un’unità nazionale, costruita da classi dirigenti incapaci di egemonia e capaci quasi solo di coercizione amministrativa, ha segnato fortemente la statualità italiana. Così ogni conflitto sociale o civile tende a divenire fatalmente anti-Stato. Per quanto deliranti o velleitarie possano apparire le dichiarazioni delle Br – ma ricordo solo che nei primi anni 70 anche le Br apparvero deliranti o “sedicenti” ai più – esse impongono, in primo luogo al movimento No-Tav destinatario dell’appello, una rigorosa autointerrogazione: “Perché proprio a noi”? E’ solo provocazione gratuita, come sostiene il Comitato No-Tav, o vi sono oggettivi punti di convergenza di atteggiamenti?

Domande che dovrebbero interessare anche mass media e intellettuali che frequentano la Val di Susa. E’ troppo impietoso ricordare l’elenco di oltre 700 intellettuali e giornalisti, all’epoca la crème del Paese, che il 10 giugno del 1971 firmarono una “ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori (Luigi Calabresi!), ai magistrati persecutori, ai giudici indegni” del caso Pinelli? In quel testo firmato la frase-chiave è la seguente: “Ricusiamo di riconoscere in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini”. Intanto, a dimostrazione che parole e pietre sono fatte della stessa materia, un anno dopo Luigi Calabresi veniva assassinato. 

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