Psichiatra, cinquantatré anni, due figli, casa e lavoro a Bari. La dottoressa Labriola è stata uccisa con incredibile furia ieri mattina, nel suo studio, da un suo paziente, tossico, che voleva dei soldi. Il marito, i colleghi sono sconvolti e con loro tutti i medici e gli operatori che lavorano con i malati di mente. Ho rivisto da poco “Si può fare”, uno dei film più nascosti e più belli con Claudio Bisio protagonista, delicato e pensoso. La storia di una comunità di matti, dove l’incauto direttore della cooperativa catapultato lì per punizione, diventa l’amico, il fratello, un imprenditore per un lavoro finalmente degno. Comprende che i malati di mente sono persone, non bestie da rinchiudere o sfiancare di psicofarmaci, ma senza dimenticare che sono malati e, se non curati, le loro storie possono finire in tragedia. Tocca la corde della leggerezza, della commovente ironia; ma ci sono anche le lacrime, la paura a fargli capire che deve far i conti con quel che è, non con quel che è nella sua testa.
C’erano stati gli anni esaltanti della chiusura dei manicomi, grazie a Basaglia e ai suoi allievi. Non erano cliniche psichiatriche, ma luoghi di segregazione e di orrore, gironi infernali in cui sperimentare la violenza, l’umiliazione, il sopruso. Andavano chiusi, ma non per il nulla. Sono passati 35 anni: chi ha trai suoi cari un malato di mente sa bene che gli ideali non collimano sempre con la realtà. Che la famiglia, da sola, non può sostenere il peso delle cure, dell’accudimento di malati del genere. Che non basta chiudere strutture fatiscenti e disumane per cancellare il problema.
Ci vorrebbero case famiglia, comunità d’accoglienza, luoghi protetti. Ci vorrebbero soldi, si risponde. Non solo, basterebbe la volontà e uno strappo al buonismo, all’ipocrisia di chi nega la diversità per non doverla guardare e farsene carico. I malati di mente possono essere pericolosi. Conta tantissimo voler loro bene, ma non basta. Non devono poter liberamente muoversi e agire tra tutti, perché non si possono mettere a rischio familiari, medici, assistenti.
Forse la dottoressa Labriola non nutriva alcun dubbio sul suo assassino, disposta come sempre a parlargli, a calmarlo, a farlo sentire seguito e amato. Forse è stato un raptus inaspettato. Oppure più probabilmente, come tutti i suoi colleghi, tutti i giorni, scommetteva, sperava, indifesa, sulle sole armi della parola. Perché come testimoniano in quella struttura, era da tempo che avvenivano aggressioni e che dovevano vedersela con pazienti violenti. L’avevano detto, avevano chiesto sostegno, quasi con pudore, perché non sta bene, non si può, si tratta di malattie come altre, non drammatizziamo.
Invece no, non sono malattie come altre, quelle in cui perdi l’uso della ragione, e il controllo di te. I centri cui vengono indirizzati si può anche chiamarli Servizi di Igiene Mentale, ma l’igiene centra ben poco. Non c’è nulla di sporco nella malattia, neppure il suo nome. Non vale addossare la responsabilità di gesti inconsulti al “disagio sociale”, o alla crisi. Un malato è un malato, e se è matto, è un matto. Punto. Tocca essere leali con lui e con la verità, perchè va curato, e controllato, sempre. Nessuna Paola Labriola deve più perdere la vita, per un lavoro duro e doloroso, che è anzitutto pura vocazione.