Un bellissimo intervento del Cardinale Ravasi sul Corriere della sera di giovedì ha illustrato come meglio non si poteva il significato non soltanto religioso del digiuno, dell’astinenza dal cibo, come archetipo, modello universale di purificazione, di distacco dalle cose e quindi dalla violenza. Il digiuno è distacco dalle “spoglie del mondo”, dalle cose concrete come personale “bottino” di ogni giorno, o di una battaglia; e quindi dalla violenza per conseguirle. Il digiuno è poi anche ascesi dai “rumori” del mondo: “digiuno della mente, astensione da ogni forma di superficialità, catarsi interiore, spirituale, culturale”. Il digiuno infine è svuotamento di sé, per far posto alla trascendenza, all’Altro, che se per i credenti è l’incontro con Dio e la sua volontà di pace, nondimeno per i non credenti è l’evidenza di una fraternità di uomini e cose che se non trova il Volto del Padre, può tuttavia sempre trovare il volto dei fratelli, con le sue stesse domande e le sue stesse speranze.
È questo archetipo antropologico, simbolo insieme politico e religioso, che Papa Francesco ha mobilitato contro la guerra in Siria, la guerra che c’è già, e la guerra che potrebbe aggiungervisi; aggiungendo problema a problema, aprendo scenari ancora più drammatici di quelli già tragici che il popolo siriano vive. Questo spiega l’amplissima risonanza che sta avendo anche in ambienti laici e politici, e non solo religiosi, l’appello al digiuno di oggi per la causa della pace in Siria di Francesco.
Quante divisioni ha il Papa a sostegno del suo appello? Certamente nessuna, ma “mai più la guerra”, il suo grido che chiede “di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi ma di guardare all’altro come ad un fratello e di intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione”, ha dalla sua il cuore dell’uomo. Per questo con la Chiesa, esperta di umanità, possiamo avere in questi giorni e in queste ore speranza; e lavorare alla speranza.
Non l’hanno purtroppo fatto a San Pietroburgo. Le divisioni del G20 hanno portato a piena evidenza l’impotenza della politica internazionale, e il consueto esito pilatesco. Neanche una riga comune per dire almeno di una comune preoccupazione e di una comune volontà di trovare una soluzione, anche se non c’è ancora. Ma l’impotenza della politica non cade dal cielo, è un’impotenza voluta, da calcoli di parte e mancanza del coraggio della buona volontà (che non sanno come uscire dal conflitto siriano senza alterare equilibri geopolitici già precari, anzi magari sperando di lucrare qualche vantaggio di posizione).
Il paradosso è che proprio il non raggiungimento di una posizione comune della comunità internazionale porta al bivio drammatico “intervento sì/intervento no”, con l’irraggiungibilità evidente di una posizione comune anche su questo scenario drammatico; drammatico per le sue prevedibili conseguenze di escalation di violenza sul terreno e nella geografia politica quanto meno regionale, se vi si desse corso; e drammatico anche per l’impotenza internazionale che ne consegue a contribuire a fermare il massacro fratricida in Siria perché blocca o rende inerte qualsiasi altra iniziativa.
Laddove proprio una posizione politica comune della politica internazionale e dei suoi grandi attori nel Consiglio di sicurezza all’Onu potrebbe evitarci il dramma di questo bivio, costringendo le parti in lotta ad una soluzione politica del conflitto, quando fosse chiaro che non sarà consentita sopraffazione degli uni sugli altri, e che devono uscire di scena sull’uno e sull’altro fronte chi ha scelto la violenza, e le sue strade senza sbocco.