Di fronte alla vicenda del ragazzo omosessuale ucciso a Roma, e alle pesantissime strumentalizzazioni in atto nel vasto sottobosco della Rete volte ad utilizzare questo ignobile delitto per promuovere ulteriormente provvedimenti liberticidi e forme di unione che travalicano i diritti personali per imporsi come modelli evoluti di società, ci sono alcune considerazioni che non si possono più tacere. 



Più volte, nei mesi scorsi, la preoccupazione principale di molti credenti su temi quali l’omosessualità o “i principi non negoziabili” è stata quella di non erigere steccati o barriere, ma di mettere in evidenza come tutti, per la Chiesa, portiamo dentro un tesoro che si esprime in vari modi, anche attraverso desideri, tendenze, attrattive che – per il fatto che ci sono – meritano ascolto, rispetto e attenzione. Questo, è evidente, non può mai portare a rimanere lì a naufragare in quello che uno sente e vive: ogni stima, ogni attenzione, ogni ascolto, infatti, c’è per un giudizio. 



La millenaria tradizione della Chiesa ci dice, a tal proposito, che certi comportamenti o certi gesti introducono un disordine oggettivo nella vita e sono essi stessi intrinsecamente disordinati, forse anche confusi e pasticciati. Se questo è chiaro, il punto delicato riguarda il soggetto che deve emettere questo giudizio. E su questo si è evidenziata, lungo i mesi, una posizione importante, decisiva: ognuno di noi, per quanto ferito dal peccato, è perfettamente in grado di riconoscere il bene come bene e il male come male.

Io non devo avere paura della coscienza del mio prossimo, perché “bene” e “male” sono realtà oggettive e l’autodeterminazione, se a volte può prendere delle cantonate, alla lunga si scontra sempre con la realtà, mostrando come molte delle cose che noi ritentiamo “bene” siano in verità un mero capriccio ad uso e consumo del nostro narcisismo. 



In questo senso la Chiesa non fa altro che anticipare, con le sue norme morali, ciò che qualunque umanità seriamente impegnata con se stessa finirà per scoprire. Il problema sta nel fatto che queste indicazioni che la Chiesa ci offre troppe volte sono risultate un dato di fede e non di ragione, legate al “credo” di ognuno e non al rapporto oggettivo col reale. Per questo non finiremo mai di essere grati di come Benedetto XVI abbia riportato la discussione in merito alle verità delle Chiesa dal campo della fede al campo della ragione: egli ha permesso ad ogni uomo di poter percorrere un cammino ragionevole per giungere a vivere la vita buona proposta da Cristo, quella che si sperimenta dentro il rapporto con Lui. 

La svolta di Francesco, pertanto, si coglie ponendo l’attenzione sull’intuizione educativa di “non vaccinare nessuno dalla fede della Chiesa”, ossia di non offrire a nessuno – nemmeno ad una categoria conclamata di peccatori – l’alibi per non fare un cammino umano autentico, anteponendo al loro dramma le risposte già esistenti del Magistero. Io mi fido dell’uomo. Il Papa si fida dell’uomo. E sa che “seguire Cristo si può, ma – inesorabilmente – si deve”. Il cuore dell’uomo è fatto per Cristo e, per questo – con il Concilio Vaticano II – non dobbiamo avere paura di riconoscere l’autonomia delle realtà temporali (Gaudium et Spes, 36): perché siamo certi che ogni uomo veramente impegnato con sé non arriverà mai, nel campo della scienza come in quello della morale, ad una realtà diversa da quella espressa dalla fede cristiana. Certo, ciò non avverrà naturalmente. 

Infatti la Rivelazione non è un progresso organico dell’intelligenza umana, ma – esistenzialmente – essa è una realtà totalmente Altra di cui l’uomo avverte bisogno ogni qual volta è profondamente impegnato con l’istante che gli è dato da vivere. Starà alla sua libertà decidere, a quel punto – giunto sul crinale della vita –\, che cosa fare: se guardare, e aprirsi a ciò che c’è, oppure chiudere gli occhi e continuare a brancolare nel buio. È lì, in quell’istante di libertà pura, che noi abbiamo bisogno di essere educati. Educati ad andare oltre, educati ad aprirci con fiducia a quell’Altro che, spesso, intravediamo. Lì abbiamo bisogno di una coscienza rettamente impostata. 

Ma tutti coloro che, con la preoccupazione del Magistero, vogliono togliere all’uomo il rischio e il brivido di quell’istante non stanno difendendo la fede, stanno solo impedendo che la fede sia trasmessa, che la fede diventi “mia”. Per questo non smetterò mai di ringraziare don Giussani per quello che ci ha insegnato sull’esperienza umana. Egli non ha relativizzato la realtà oggettiva, e le norme della Chiesa, ma ha indicato potentemente una strada per cui la verità rivelata diventi mia. Così che nessuno, e niente, possa portarmela via. Tutto questo per dire che una cosa è il cammino del singolo, da difendere sempre a spada tratta, un’altra cosa è sostenere che esistano forme giuridiche alternative alla famiglia che possano dare lo stesso contributo sociale, umano e civile al nostro tempo. Questa è mera propaganda. E se i diritti del singolo devono sempre essere promossi e sostenuti dallo Stato, nessuno Stato può permettersi di approvare o legarsi a norme che sono – niente di meno – che un suicidio per lo Stato stesso. 

Io non so se il demonio vuole la definitiva scomparsa dell’uomo. So solo che l’onestà è una merce rara. Il fatto è che di onestà ce ne vuole molta, sia per camminare dentro la propria umanità, permettendo anche agli altri di compiere la stessa strada in assoluta libertà e senza moralismo, sia per riconoscere che talvolta la propria strada, quella fortemente voluta e intrapresa per sé, non è un bene per tutti. È un bene soltanto mio. Ovviamente lo Stato deve tutelarlo per permettere a ognuno di andare fino in fondo al proprio desiderio di bene. Ma non posso pretendere né che per tutelare me si sfasci il mondo intero né che tutti, di fronte ad un cielo chiaramente blu, si mettano a dire – per farmi contento – che il cielo invece è giallo.