Con la sentenza dello scorso 7 gennaio (affaire Cusan-Fazzo c. Italie, n. 77/07) la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dunque riconosciuto che le norme italiane che dispongono l’attribuzione automatica del cognome paterno al figlio di genitori coniugati – e che impediscono perciò che ad esso possa essere attribuito il solo cognome materno nonostante la concorde volontà dei genitori in tal senso – violano l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, considerato unitamente all’art. 8 della stessa Convenzione. Le norme cit. della Convenzione prevedono, l’una, il divieto di qualsiasi discriminazione nel godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella Convenzione, in particolare anche delle discriminazioni fondate sul sesso (art. 14 CEDU) e, l’altra, il diritto di ogni persona al rispetto della vita privata e familiare con conseguente esclusione di ingerenze delle autorità pubbliche nel suo esercizio (art. 8 CEDU). Insomma, a quanto pare di capire, secondo la Corte di Strasburgo, le regole italiane sull’attribuzione del cognome paterno al figlio di genitori coniugati sarebbero discriminatorie nei confronti della donna e inoltre, imponendosi finanche alla libera scelta dei coniugi, determinerebbero un’ingerenza non consentita dei pubblici poteri nella vita privata e familiare degli individui.
La sentenza in questione, che fa applicazione di principi consolidati nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e che era perciò largamente prevedibile, fa seguito a una decisione di qualche anno fa della Corte costituzionale italiana, che aveva dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale delle norme sul cognome del figlio, sollevata con riferimento agli artt. 2, 3 e 29, comma 2, Cost. (sent. 16 febbraio 2006, n. 61). In quell’occasione anche la Corte costituzionale, prendendo chiaramente le distanze dai propri precedenti pronunciamenti su questioni analoghe, a dire il vero piuttosto risalenti (cfr. ord. 11 febbraio 1988, n. 176 e ord. 19 maggio 1988, n. 586), aveva riconosciuto che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia… e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». La Corte costituzionale non aveva però ritenuto di poter dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme sul cognome del figlio. E ciò perché la lacuna che si sarebbe prodotta nel sistema a seguito di una simile pronuncia non avrebbe potuto essere colmata altrimenti che con l’intervento del legislatore ordinario data la varietà delle soluzioni prospettabili: da quella di rimettere la scelta del cognome esclusivamente alla volontà dei genitori, con la conseguente necessità di stabilire i criteri cui l’ufficiale dello stato civile dovrebbe attenersi in caso di mancato accordo, ovvero di consentire ai coniugi che abbiano raggiunto un accordo di derogare a una qualche regola pur sempre valida, a quella di richiedere che la scelta dei coniugi debba avvenire una sola volta, con effetto per tutti i figli, ovvero debba essere espressa all’atto della nascita di ciascuno di essi.
A questo punto, dopo la decisione della Corte di Strasburgo, non sembra che possa ancora essere rimandato un intervento di riforma delle regole sul cognome dei figli con la finalità di eliminare qualsiasi discriminazione a carico dell’uno o dell’altro genitore e di dare rilievo anche alla loro concorde volontà. Un disegno di legge contenente disposizioni in materia di attribuzione del cognome ai figli è stato infatti prontamente approvato dal Consiglio dei Ministri già nella seduta del 10 gennaio. Nei principali ordinamenti europei, del resto, si sta provando già da diversi anni a dare attuazione a certi principi, talora anche per successive approssimazioni. In Germania, ad esempio, i coniugi possono attualmente scegliere di adottare come cognome comune quello dell’uomo o della donna, con conseguente attribuzione automatica di quel cognome anche ai figli della coppia; ma possono anche decidere di conservare ciascuno il proprio cognome; in tal caso ai figli possono assegnare di comune accordo il cognome dell’uno o dell’altro; in mancanza di accordo decide il giudice (v. §§ 1355 e 1616-1618 BGB: si tratta di norme che, a partire dalla seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, sono state oggetto di successivi interventi del legislatore e anche di penetranti pronunce del giudice delle leggi). Anche in Francia i genitori possono oggi accordarsi per attribuire al figlio il cognome dell’uno o dell’altro o anche entrambi i cognomi, nell’ordine che preferiscono; in mancanza di scelta al figlio viene assegnato il cognome paterno (o il cognome del genitore rispetto al quale la filiazione è stata accertata prima) oppure, ove il disaccordo tra i genitori sia stato comunicato per tempo all’ufficiale dello stato civile, il cognome di entrambi in ordine alfabetico (v. art. 311-21 Code civil, come riformulato prima dalla Loi n° 2003-516 e dall’Ordonnance n° 2005-759 e poi, di recente, dalla Loi n° 2013-404).
In Spagna, già dalla fine degli anni novanta del secolo scorso, si è adottata invece la complessa soluzione del doppio cognome: al figlio è attribuito sia il primo cognome paterno sia il primo cognome materno nell’ordine stabilito d’intesa tra i genitori; in mancanza di accordo il cognome paterno precede quello materno; in ogni caso, una volta conseguita la maggiore età, il figlio può ottenere di invertire l’ordine dei cognomi (v. art. 109 Código Civil, come riformulato dalla Ley 40/1999; di recente, peraltro, un progetto governativo di riforma aveva previsto la sostituzione della regola della prevalenza del cognome paterno in mancanza di accordo con quella dell’ordine alfabetico dei cognomi).
Certe soluzioni si caratterizzano indubbiamente per una maggiore accentuazione dei valori dell’autodeterminazione individuale e della parità tra i diversi protagonisti della vicenda familiare, laddove le regole attualmente in vigore in Italia, già censurate dalla Corte costituzionale e ora anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, mettono piuttosto in primo piano il valore dell’unità familiare. Una simile evoluzione, già compiutasi in altri ordinamenti europei e ormai destinata ad attuarsi anche nell’ordinamento italiano, potrebbe apparire come un ulteriore tassello – e peraltro neppure tra i più rilevanti – di un movimento di riforma ben più vasto, che, già a partire dalla seconda metà degli anni sessanta del secolo scorso, ha fatto sì che, nella cultura giuridica occidentale e al livello delle concrete scelte legislativa, il tradizionale modello istituzionale e gerarchico di famiglia sia stato progressivamente rimpiazzato da un nuovo modello cd. individualistico-associativo.
Anche certe novità relative al cognome del figlio sembrerebbero insomma doversi inscrivere in quel processo di modernizzazione per cui, come si legge in un recente manuale, «l’immagine della famiglia riflessa nello “specchio del diritto”… non [è] più [quella del]l’istituzione protetta in vista di interessi superiori, ma [quella del]la formazione sociale orientata al fiorire delle personalità individuali» (G. Ferrando, Diritto di famiglia, Bologna, 2013, 4). Tuttavia, come viene ormai rilevato anche dagli interpreti più avveduti (cfr. A. Nicolussi, La famiglia: una concezione neo-istituzionale?, in Europa e diritto privato, 2012, 169-196; e v. ora anche l’ampio e documentato studio di A. Renda, Il matrimonio civile. Una teoria neo-istituzionale, Milano, 2013), una simile trasformazione del diritto di famiglia, indubbiamente favorita dal giusto risalto riconosciuto al valore dell’uguaglianza dei coniugi nelle costituzioni europee successive al secondo conflitto mondiale e nelle Carte dei diritti, non può comunque condurre a «una decostruzione in senso volontaristico-individualista delle unioni familiari». L’idea che la famiglia possa conformarsi secondo una logica contrattuale e di scambio non trova infatti corrispondenza nella sua genuina immagine costituzionale quale aggregazione “naturale” e non artificiale, e cioè quale aggregazione che non si risolve in un mero prodotto della volontà dei suoi componenti, ma che esibisce pur sempre un profilo istituzionale, sottratto alla disponibilità individuale.
La giusta critica nei confronti di una concezione gerarchica e autoritaria della famiglia non può perciò condurre anche alla dissoluzione dell’istituzione e a una sua “decostruzione” in senso puramente contrattuale: una moderna concezione istituzionale della famiglia non sembra insomma per nulla incompatibile col riconoscimento dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi. Orbene, è del tutto evidente che, in un’ottica di questo tipo, sicuramente più equilibrata, in cui l’uguaglianza è correttamente intesa in funzione della tutela della dignità della persona e non come uno strumento di rivendicazioni puramente individualistiche, anche il problema dell’asserita carica discriminatoria di certe regole tradizionali sul cognome del figlio si ridimensiona in maniera significativa e, al di là di qualsiasi forzatura ideologica in un senso o nell’altro, può finalmente essere colto per quella che è la sua reale – e davvero minima – portata operativa.
In effetti, come è stato efficacemente evidenziato anche in un recente e accurato studio storico-critico sull’evoluzione della disciplina svizzera del cognome del coniuge (cfr. U. Zelger, Recht und Realität im schweizerischen Familiennamesrecht., in Realitäten des Zivilrechts. Grenzen des Zivilrechts a cura di P. Kreutz e altri, Stuttgart, 2012, 357-383), la definizione delle regole sul cognome della persona ha sempre rappresentato un luogo privilegiato di confronto – e di scontro – tra visioni alternative della famiglia. E ciò nonostante che certe regole abbiano una rilevanza davvero molto limitata sulla vita concreta degli individui. Anzi, in quello studio si è osservato anche che una conflittualità particolarmente accesa su una simile questione si è potuta innescare proprio grazie al suo scarso rilievo pratico. In fondo, la questione del cognome offre la possibilità di alimentare “a costo zero” un conflitto che, a ben vedere, è soltanto ideologico.
Sempre in quello studio si è mostrato anche che la regola originaria dello ZGB svizzero del 1907 secondo cui il coniuge sostituisce al proprio cognome il cognome del marito non è mai divenuta pienamente effettiva.
E ciò perché, almeno in alcuni territori della Confederazione elvetica, preesistevano delle tradizioni differenti fortemente radicate, le quali, nell’uso quotidiano, hanno continuato a esser praticate e a prevalere di fatto su una norma scritta ispirata soprattutto da ragioni ideologiche, una norma che ha nondimeno continuato ad esistere fino a un recente intervento legislativo del novembre 2012. Con ciò si vuole evidenziare che la forza normativa del fatto finisce comunque per prevalere sull’ideologismo astratto del legislatore. Orbene, sembra quanto mai opportuno che anche il legislatore italiano faccia tesoro di un simile insegnamento nel momento in cui si accinge a riformulare le norme sul cognome dei figli, evitando sapientemente qualsiasi forma di ideologismo astratto e cercando piuttosto di elaborare regole semplici e che non corrano il rischio di essere percepite dai consociati come estranee alla concreta realtà delle relazioni familiari.