C’è ancora qualcuno a cui fa paura dare in lettura Il nome della rosa di Umberto Eco? Sembrerebbe proprio di sì, a giudicare dal divieto inflitto a un noto boss di cosa nostra, Davide Emmanuello, di Gela, recluso nel carcere di Ascoli Piceno, in regime di 41 bis. Ed è proprio un tale regime a impedire la lettura di alcuni giornali o libri, semplicemente ritenuti pericolosi dall’area educativa, vale a dire, da chi è tenuto a sovrintendere alla rieducazione del recluso. Alcuni quotidiani nazionali, dal Fatto quotidiano a Repubblica, al Corriere della sera hanno parlato, pur in sordina, del divieto imposto a Emmanuello di leggere uno dei romanzi più letti in Italia negli ultimi dieci anni. Al di là dei giudizi critici, pur legittimi, che si possono nutrire nei confronti dell’opera di Eco, non credo si possa in alcun modo giustificare una misura così restrittiva da apparire una vera e propria censura della coscienza.
È quanto lo stesso Emmanuello racconta in una lunga lettera (rinvenibile nella sua completezza nel blog “Le urla del silenzio”) nella quale, oltre a raccontare gran parte della sua esperienza giudiziaria e carceriaria, lancia il suo grido di allarme, il grido di un uomo che desidera uno spazio utile per continuare a vivere: “Essere sottoposto per venti anni alla censura significa subire una perquisizione interiore che profana lo spazio dell’anima che dovrebbe rimanere un angolo segreto nel quale potersi rifugiare”. E la lettura di un libro, più di ogni altro gesto, può forse essere considerato quello spazio dell’anima in cui poter riguadagnare un po’ di quell’umano perduto e che si dovrebbe poter riscoprire anche in un ambito come quello del carcere, e del carcere duro.
Come non ricordare il titolo di uno degli ultimi Messaggi per la giornata mondiale della Pace di Giovanni Paolo II: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”? Era il 2002, e il Santo Padre ebbe il coraggio (dieci anni prima della cosiddetta “emergenza carceri”) di coniugare la giustizia con il perdono: “Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia”.
Perché – occorrerebbe ricordare alle aree educative dei carceri di massima sicurezza – un conto è pagare il proprio debito alla società, un conto è realizzare nuove forme di violenza all’interno di strutture pubbliche che dovrebbero almeno garantire i diritti costituzionali a tutti i cittadini.
E invece, a volte si ha l’impressione che tali decisioni “educative” siano rappresentative di un carcere così disumanizzato e disumanizzante, da privare l’uomo di una qualsiasi speranza, estirpandolo non solo della sua libertà, ma soprattutto della sua dignità. Ma un carcere che non assuma su di sé l’onere di un’educazione all’umano e per l’umano, è un luogo che ha scelto di mantenere inalterata la follia lucida di chi ha commesso un reato. Emmanuello, così come ogni uomo, vive nel presente avendo negli occhi il suo passato, conosce le sue responsabilità che nessuna corte di giustizia potrà cancellare né far dimenticare, e, tuttavia, sa anche che gli abissi della sua anima non coinvolgono più l’uomo del reato bensì l’uomo della pena, un uomo ferito che cerca la sua umanità e, chissà, forse (lo speriamo…) il suo perdono.