Jahi McMath ha 13 anni e vive a Oakland, sull’altra sponda della Baia di San Francisco, al di là del Bay Bridge. Vive o viveva a Oakland, all’ospedale dei bambini dopo che una disastrosa tonsillectomia l’ha lasciata esangue, e conseguentemente “brain dead”, priva di attività cerebrale. Tre giorni dopo quel tragico 9 dicembre i medici erano pronti a staccare il respiratore, ma i genitori no. Di lì una battaglia legale che al momento ha portato ad un ordine della Corte: lasciare Jahi per una settimana ancora on “life support”. Per i medici è una follia, una inutile ostinazione, quel che tecnicamente si chiama “accanimento terapeutico”. Per i genitori un filo di speranza, o forse semplicemente un desiderio straziante: “Il cuore batte, nostra figlia è viva”.



Io non so, capisco quel che capisco. Capisco i medici, capisco i genitori. Nessuno però riesce a capire il mistero della vita e della morte. Poche settimane fa ho vissuto da vicino la vicenda di una giovane madre, qui a New York, passata attraverso circostanze simili. Non era la prima volta che mi trovavo di fronte a questo mistero del cuore che continua a battere e del cervello che non c’è più. E la prima volta mi aveva ferito profondamente. C’era un giovane, disteso su un letto d’ospedale, in New Hampshire. Era venuto fin qui per trascorrere un periodo di vacanza con fratello e amici. C’erano i genitori, precipitatisi dall’Italia quando un banale incidente durante un gioco aveva squassato un aneurisma nascosto nel suo giovane cervello, chissà dove e chissà da quando. Chissà perché. Si aspettava insieme che il tempo offrisse segnali di speranza, o indicasse che quella vita era computa.



Si pregava, e si aspettava il momento in cui si sarebbero eseguiti gli ultimi, estremi test per vedere se quel povero cervello fosse ancora in grado di reagire. E il giovane era lì, immobile, sul lettino d’ospedale, con la sua barba corvina, con i suoi lunghi capelli mossi a far da cornice ad un volto che non si sarebbe più mosso. “Guardalo – mi ricordo queste precise parole che il padre del ragazzo ripeteva -. Sembra il Cristo del Mantegna”. Lo guardava, con gli occhi pieni di lacrime, e sussurrava che avrebbe dato la vita per restituirla al figlio. Ma non si può. Padre e madre avrebbero dato la vita per il loro figliolo, ma sapevano che non si può, e in quel dolore misterioso ed innocente vedevano il riflesso del dolore misterioso e innocente di Gesù. Non c’è posizione umana più vera, totale, affettuosa di questa.



Ma perché dobbiamo parlare di queste cose nel periodo di Natale, con l’anno nuovo che comincia, quando tutti ci si augura – di solito senza neanche pensare a quel che si dice – della gran felicità?

Sotto le feste di Natale noi cantiamo molto spesso Christmas Carols, quei bellissimi canti della tradizione che narrano della nascita di nostro Signore. Quest’anno come non mai mi son reso conto di quante volte assieme alla gioia per la nascita questi Carols cantino del grande dolore che accompagnerà la vita del bambino. Nello sguardo di Maria, nei doni dei Magi …c’e’ un destino, un cammino, uno svolgimento misterioso che passerà attraverso una grande sofferenza per compiersi e diventare così “più vita della vita”.

E’ cosi per tutti, è così anche per Jahi, come lo è stato per la giovane mamma, per quel ragazzo in New Hampshire e tutti quelli il cui destino terreno si è compiuto. Quando si va – come quando si arriva – non siamo noi a deciderlo. Ma è un compimento. Il dolore è per chi resta, non per chi se ne va. Chi se ne va torna da chi ci ha creato, la sua vita si compie.

Buon anno!