Caro direttore,
ho letto con molta attenzione e condivido le osservazioni di Antonio Spadaro nel suo articolo sul Corriere della Sera; è vero, si stanno equivocando appositamente le parole di Papa Francesco in modo da annacquare la sua sfida che invece è quanto mai chiara e stringente. Il Papa sta con le parole e con i gesti, con lo sguardo e con le azioni, con il suo abbraccio totale, portando ad ogni uomo e ad ogni donna l’amore che il loro cuore cerca, l’amore di cui ha bisogno, questa è la rivoluzione di Papa Bergoglio. Proprio perché Papa Francesco testimonia che Cristo sa rispondere alle esigenze costitutive dell’essere umano, urge quanto mai capire le ragioni che lo muovono per poterlo seguire, senza fermarsi a degli aspetti particolari che rischierebbero di impantanare l’annuncio cristiano, di fermare la sua mossa.
Sono due le questioni che bisogna capire, altrimenti non si potrà contribuire creativamente a quello che Papa Bergoglio sta lanciando, una nuova e più incisiva azione missionaria, una compagnia reale ad ogni essere umano, ogni essere umano bisogna sottolinearlo, tant’è che all’Angelus dell’Epifania il Papa ha detto: Mi piacerebbe – sinceramente – mi piacerebbe dire a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa – dirlo rispettosamente – dire a quelli che sono timorosi e indifferenti: il Signore chiama anche te, ti chiama ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore!» (ibid., 113). Il Signore ti chiama. Il Signore ti cerca. Il Signore ti aspetta. Il Signore non fa proselitismo, dà amore, e questo amore ti cerca, ti aspetta, te che in questo momento non credi o sei lontano. E questo è l’amore di Dio”.
In questa capacità di stare di fronte ad ogni persona, con la certezza che il Signore si rivolge direttamente a lui o a lei, che lo cerca o la cerca, in questa tenerezza per ogni persona sta la rivoluzione di Papa Bergoglio, che in realtà è semplicemente vivere l’amore che Cristo porta oggi.
La prima questione da capire è perché questo amore sia l’educazione. Il Papa lo dice esplicitamente quando afferma: “trasmettere conoscenza, trasmettere modi di fare, trasmettere valori. Attraverso questi si trasmette la fede. L’educatore deve essere all’altezza delle persone che educa, deve interrogarsi su come annunciare Gesù Cristo a una generazione che cambia”.
Non esiste amore che non sia educazione, che non abbia a cuore il bene dell’altro. Per questo la questione prima che Papa Bergoglio pone non sono le coppie di fatto o l’omosessualità, ma se l’incontro con il cristianesimo educhi, se l’impatto con lo sguardo di Cristo entri dentro la vita e la liberi verso il suo compimento. Questa è l’educazione, un amore che educa, uno sguardo in cui le domande più vere sono prese sul serio e portate a incontrare la risposta, che non è una teoria, ma una presenza, la tenerezza di un abbraccio, tant’è che “bisogna cercare Dio per trovarlo, e trovarlo per cercarlo ancora e sempre”.
La seconda questione riguarda l’annuncio di Cristo ad una generazione che cambia, un nuovo segno dei tempi e il Papa ce lo segnala evidenziando la debolezza affettiva di questa generazione. Ma proprio per questa debolezza affettiva ci avverte affinché stiamo “attenti a non somministrare ad essi un vaccino contro la fede”.
Quando ho letto questa provocazione di Papa Francesco, una provocazione quanto mai incalzante e attuale, mi è venuto alla mente l’effetto Chernobyl di cui parlò don Luigi Giussani nel 1986. Vorrei riproporre l’inizio di quell’intervento perché ritengo possa aiutare a capire quello cui oggi ci sta chiamando il Papa, a non far diventare il cristianesimo un vaccino contro la fede, ma a cercare il cuore dell’uomo come Cristo fa in modo instancabile e struggente, perché è di questo che ha bisogno.
“Vorrei iniziare questa nostra conversazione – disse don Giussani − osservando una differenza tra l’attuale generazione di giovani e quella che ho incontrato trent’anni fa: la differenza risiede in una debolezza di coscienza nei giovani di oggi; una debolezza cioè non etica, ma relativa al dinamismo stesso della coscienza. Non per nulla, dopo tanti anni, abbiamo messo a tema l’influsso nefasto e decisivo del potere, della mentalità comune e dominante − dominante in senso letterale. È come se tutti i giovani d’oggi fossero stati investiti da una sorta di Chernobyl, di enorme esplosione nucleare: il loro organismo strutturalmente è come prima, ma dinamicamente non lo è più; vi è stato come un plagio fisiologico, operato dalla mentalità dominante. È come se oggi non ci fosse più alcuna evidenza reale se non la moda − che è un concetto e uno strumento del potere. Così anche l’annuncio cristiano stenta molto di più a diventare vita convinta, a diventar vita e convinzione. Quello che si ascolta e si vede non è assimilato veramente: ciò che ci circonda, la mentalità dominante, la cultura onniinvadente, il potere, realizzano in noi una estraneità rispetto a noi stessi. Si rimane cioè, da una parte, astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi (come pile che invece di durare ore durano minuti); e, dall’altra, per contrasto, ci si rifugia nella comunità come protezione.
La persona ritrova se stessa in un incontro vivo.
Se l’evidenza oggi più convincente sembra essere la moda, dove la persona può ritrovare se stessa, la propria identità originale? Quella che sto per dare è una risposta che non si attaglia solo alla situazione in cui siamo, ma è una regola, una legge universale (da quando e fin quando l’uomo c’è): la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, imbattendosi cioè in una presenza che suscita un’attrattiva e la provoca a riconoscere che il suo «cuore» − con le esigenze di cui è costituito − esiste“.
“L’io ritrova se stesso nell’incontro con una presenza che porta con sé questa affermazione: «Esiste quello di cui è fatto il tuo cuore! Vedi, in me, per esempio, esiste». Perché, paradossalmente, l’originalità del proprio io emerge quando ci si accorge di avere in sé qualcosa che è in tutti gli uomini (questo è ciò che veramente mette in rapporto con chiunque e non fa sentire estraneo nessuno). L’uomo riscopre la propria identità originale imbattendosi in una presenza che suscita un’attrattiva e provoca un ridestarsi del cuore, un sommovimento pieno di ragionevolezza, in quanto realizza una corrispondenza alle esigenze della vita secondo la totalità delle sue dimensioni − dalla nascita alla morte. La persona si ritrova dunque quando in essa si fa largo una presenza che corrisponde alla natura esigenziale della vita: solo così l’io non è più nella solitudine. Normalmente, dentro la realtà comune, l’uomo, come «io», è nella solitudine, da cui cerca di fuggire con l’immaginazione e i discorsi. Questa presenza che corrisponde alla vita è il contrario di un’immaginazione. L’incontro che permette all’io di riscoprire se stesso non è un incontro «culturale», ma vivente; non è un discorso fatto, ma un «fatto» vivente − che, beninteso, può palesarsi anche sentendo qualcuno che parla; quando costui parla, però, è con qualcosa di vivente che l’io è messo in rapporto, non con un’ideologia o un discorso disarcionato dalla forza della vita. Non si tratta, insisto, di un incontro culturale, ma esistenziale. Tale incontro porta con sé due caratteristiche che ne costituiscono l’inconfondibile verifica: introduce nella vita una drammaticità, che consiste nel percepire una provocazione al cambiamento di sé e nel tentare un inizio di risposta, e nello stesso tempo introduce almeno una goccia di letizia, anche nella condizione più amara o nella constatazione della propria meschinità. Insomma, per usare un’altra espressione, ciò che deve accadere perché l’io riscopra se stesso è un incontro evangelico, capace di ricostituire la vitalità dell’umano: come l’incontro di Cristo con Zaccheo“.
Una generazione che cambia, sbriciolata da una esplosione vasta e che sembra impossibile da fermare, con effetti collaterali quanto mai disastrosi, e quello che nel 1986 diceva don Luigi Giussani oggi lo si può cogliere ancor più drammaticamente vero, dentro questo cambiamento che lacera l’umano, dentro queste ferite sanguinanti, si fa largo con una forza ancor più decisiva la natura del fatto cristiano, il suo essere un incontro e un incontro che ridesta l’io, che lo fa rifiorire. Educare non è far diventare gli altri come si vorrebbe, non è plasmarli in forza di un’immagine che noi abbiamo e che riteniamo la migliore che vi sia, educare è puntare sul loro cuore, è rischiare sulla loro libertà.
Lo diceva don Giussani a Viterbo agli insegnanti nel 1977: “la presenza, la comunicazione dell’adulto, è un rischio, in quanto è coinvolta nella libertà del giovane e la libertà è la capacità di paragonarsi con il destino attraverso le cose, di aderire all’essere attraverso le contingenze. L’azione educativa è rischiosa perché è abbandonata a una libertà fragile; e qui uno capisce il limite della propria persona e la insondabilità del mistero dell’altro. Queste percezioni alimentano una umiltà che non fiacca minimamente l’entusiasmo, che non mette minimamente in questione la passione, ma che rende tale entusiasmo e tale passione vera proposta e non tentativo di accattivarsi l’altro” (da Il rischio educativo, 1995).
Questo oggi bisogna riscoprire come dinamica dell’esperienza cristiana, il fatto che un educatore è tale se punta tutto sulla libertà dell’altro, se è certo che solo una verifica nell’esperienza può convincere della bontà della sua proposta, che ha bisogno della libertà di chi educa come Dio ha bisogno degli uomini.
Qui sta il fascino cui ci chiama Papa Bergoglio, il fascino di avvertire che Cristo è ciò di cui ha bisogno questa generazione che cambia.