Diciamo la verità: l’avevamo pensato tutti, che fosse il figlio il responsabile dell’atroce delitto di Caselle torinese. Non solo i giornalisti, che pure dovrebbero usare maggior prudenza, per la delicatezza del loro mestiere. Prima di improvvisarsi Maigret e dare in pasto all’opinione pubblica un uomo, prima di infarcire i pezzi con sospetti così insidiosi da indurre i lettori a credere anche senza prove a una sentenza di condanna.



Ma è ancor più grave che tutti ancora una volta ci siamo quasi cascati. Hai voglia a parlare di garantismo, alla tiritera del “lasciamo lavorare i pace gli inquirenti”, che di per sé non ci danno mai tutta questa fiducia. Abbiamo la lista a mente, dei casi irrisolti. Hai voglia a sciorinare alibi, quel ragazzo, quel Maurizio, non è una bella persona, si è sussurrato tra uno scuotimento di testa e una chiacchiera da bar. Non lavora, ha l’orecchino, ha dovuto confessare il possesso di un etto di cannabis, insomma, è un drogato. E poi stava a spassarsela con la fidanzata in montagna, mentre i suoi genitori e la nonna morivano.



Come se avesse dovuto avere le antenne, e farsi trovare nelle vicinanze dell’omicidio, pronto a prestare soccorso. Come se  non fosse stato lui a preoccuparsi per le mancate risposte al telefono, a mandare un amico per verificare se mai era successo qualcosa. Come se non fosse normale stare in vacanza con gli amici (“Vacanza? Che vacanza, per uno scansafatiche?”) sotto Capodanno, o addirittura non abitare più a casa con mamma e papà, alla veneranda età di 29 anni. Come se, blaterati ogni giorno i dati sulla disoccupazione giovanile, non fosse semplicemente normale non riuscire a trovare un lavoro stabile, a 29 anni (“Quello voleva solo suonare quella musica tremenda, e lo chiami lavoro?”). “Aveva bisogno di soldi, ha ucciso pe questo”. Come se non  fosse ovvio che un ragazzo di buona famiglia, malgrado gli screzi con i genitori, se ha bisogno di soldi deve soltanto chiederli, e arrivano. Si entra in una spirale così tortuosa da offuscare la ragione, e cancellare qualsiasi tenue battito cardiaco.



Ieri mattina le agenzie battevano alle ore 9.45 la notizia che il caso poteva dirsi risolto (ci lasciamo un residuo margine? Ma insomma, c’è stata una confessione piena, a meno che si tratti di follia autoaccusatoria…). Ma sui quotidiani del giorno si leggevano pagine di  sceneggiature, raccolte di voci, illazioni. I vicini di casa, ripresisi così in fretta dallo choc, che prontamente ricordavano litigi a voce alta, grida, e sempre per colpa di quel figlio degenere, che impensieriva tanto quei due poveretti.

Che ipocrisia. Come se non fossimo tutti consapevoli, nelle nostre case, di litigate feroci e urla e insulti, attutiti neanche tanto da doppi vetri e serrature. Come se non fosse perfino normale, che i figli ribelli verso padre e madre contrastino, e magari sbarellino, dopo cumuli di incomprensioni e amarezze. Che i genitori a loro volta li esasperino, i loro figli, immemori del monito biblico.

Capita spesso, e capita anche che si tratti di parentesi, che si ritrovino dialogo e armonia e si sappia perdonare, o almeno capire, e passare oltre. Che triste vita sosteniamo, circondati di finti amici impiccioni che spiano le nostre voci, le nostre finestre, senza mai offrire un aiuto, un conforto. Il cronista coglie Maurizio e la sua ragazza ieri mattina, sul presto, mentre fanno passeggiare i cani. Nessuno li saluta, nessuno si ferma, gli sguardi dei vicini calano a terra. I due giovani appaiono impacciati, pallidi, spaventati.

Altro indizio? Tocca provare, a vedersi morti ammazzati padre, madre, nonna in un colpo solo, mentre tu non sei lì, mentre ti passano davanti agli occhi come un film quei litigi, quei giorni di parole non dette, e ti si strozzano in gola i momenti belli, il rimorso di non esser stato più presente, più figlio, visto che ti senti così figlio, adesso, così solo e sperduto. Con in più il terrore di un’accusa tremenda e infamante: la polizia ti sta addosso, pensano a te, e non sai più che dire o fare, perfino quando trovi quella tazzina nascosta, il guanto di lattice, saranno mica prove ulteriori a tuo carico? Altro che essere pallidi, e abbattuti.

Maurizio, scusaci, se riesci. Scusa tutti quelli che pensano ancora che qualche spinello marchi il curriculum, e che un piercing all’orecchio desti (lombrosianamente) devianze. Come vedi non si tratta di liberalizzare un bel niente, ma di liberare le menti. Ora entra a casa tua, rimettila a posto, lascia solo le foto più belle alle pareti, fa entrare il sole, e metti testa a guadagnarti la vita. Non sarà facile, ma lo devi ai tuoi, a quella ragazza che ti è rimasta vicino, credendo in te. Si può ricominciare, sollevandosi sopra la miseria e la sprovveduta malignità dei più.