Sta girando su molti siti d’informazione in questi giorni, in realtà forse troppo enfaticamente, il video di un’udienza di tribunale in cui Gaspare Spatuzza, ammettendo di essere l’esecutore di almeno una quarantina di omicidi, chiede perdono “alla città, alle vittime e ai loro familiari”.
La città nella fattispecie è Milano, e il riferimento è anche alla strage di Via Palestro, a cui in realtà non partecipò. Ma in questa udienza particolare Spatuzza è stato chiamato come testimone contro Marcello Tutino, il presunto basista di quell’attentato, compiuto da Cosa Nostra il 27 luglio 1993, che lo stesso Spatuzza considera amico fraterno, pur confermando per lui, da pentito di mafia, le accuse. Va ricordato che Spatuzza è stato rapinatore e sicario, che rubò la Fiat impiegata come autobomba nella strage di Via D’Amelio in cui morì Paolo Borsellino con la sua scorta, che partecipò in prima persona all’esecuzione di don Pino Puglisi e di diversi parenti di collaboratori di giustizia. Sue sono anche alcune delle principali rivelazioni riguardo ai rapporti tra stato e mafia che hanno coinvolto Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi.
Che un uomo con un passato del genere, come tutti gli uomini, possa pentirsi e chiedere perdono ci sta. È anzi un buon segno: indica che la coscienza umana non muore mai del tutto, che in qualsiasi abisso possiamo precipitare, un barlume di umanità, appunto, continua a brillare e che la percezione della differenza tra il bene e il male è sempre possibile, dunque che il bene e il male esistono e sono distinguibili, al di là di ogni condizione storica e personale in cui si possa vivere.
Detto questo, la domanda su cosa significhi il perdono continua a rimanere aperta. Intanto occorrerebbe capire se Spatuzza è sincero o no; compito che spetta al magistrato, che non invidio. Nel video, la voce di Spatuzza pare accennarne quasi di passaggio, senza troppo dolore nel tono e nel modo. Una dichiarazione di sospetta spontaneità. E poi, cosa significa chiedere perdono alla città? Ci si aspetterebbe che il terribile rimorso di coscienza per quaranta (almeno!) omicidi porti al dolorosissimo pensiero verso quelle quaranta famiglie, e tutte quelle persone che hanno perduto un parente o un familiare talvolta addirittura casualmente, come “danno collaterale” (ad esempio nella stessa Via Palestro o in Via dei Georgofili a Firenze). Ma temo che sulla sincerità di Spatuzza non raggiungeremo mai un giudizio chiaro.
Ammesso però che lo sia, appare impossibile risolvere la questione del perdono con una dichiarazione. Ragioniamo ancora per assurdo: è se anche ottenesse il perdono di tutt’e quaranta le famiglie? Che senso avrebbe? I delitti sarebbero dimenticati? Tutto come prima? Non è successo niente?
Non è così che funziona. Il perdono si ha per dono, ha a che fare con un regalo assoluto, un abisso di bene ancora più profondo dell’abisso di male in cui un inveterato assassino può cacciarsi. Ed è anche, sì, un lungo processo, per cui tutta la vita rimanente può non bastare. Perché il perdono non è un colpo di spugna, ma una trasformazione: il male tramutato, magari addirittura trasfigurato, in bene.
Troppe volte la cronaca ci porta la notizia di richieste di perdono di assassini, fatte con eccessiva leggerezza. Persino la domanda di eventuale perdono rivolta da certi giornalisti in certi servizi televisivi ai parenti di vittime di omicidi risulta irritante. Nel perdono ciò che è accaduto di malvagio, guasto, distruttivo ad un certo punto diventa incredibilmente buono, sano, costruttivo. Cosa e quanto occorre per questo? Non lo sappiamo. Ma forse la domanda vera è: chi occorre per questo?